A cura della dott. ssa Annalisa Frigo
“Molto spesso, il concetto di speranza si ritrova strettamente correlato a quello di felicità” esordisce la dottoressa Frigo, dirigente medico incaricato di cure palliative a Monfalcone. “Anche se sovente sembriamo ignorarlo, è la nostra vita quotidiana il luogo da cui sale la sete di felicità. Nasce con il primo anelito di vita e si spegne con l’ultimo.
L’esempio biblico di Giona ci insegna a questo proposito come anche l’esperienza del dolore ci accomuni tutti. La vita è infatti segnata in tutte le sue fasi e le sue forme dalla fragilità; eppure, essa è bella nonostante tutte le prove e le disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l’amore.
La speranza ha dunque a che fare con la gioia di vivere, suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare.
L’esperienza della fragilità, del limite, della malattia e della morte” continua la dottoressa “può insegnarci alcune cose fondamentali: nessuno di noi è eterno o onnipotente, è i beni più importanti sono la vita e l’amore; la malattia ci costringe a mettere nel giusto ordine le cose che contano davvero. A questo proposito, scrive Tiziano Terzani: ‘A pensarci bene, dopo un po’ il viaggio non era più una ricerca di una cura per il mio cancro, ma per quella malattia che è di tutti: la mortalità’ (La fine è il mio inizio). ‘La malattia’ scrive Giovanni Marchioro ‘avrebbe potuto essere per il malato ed i familiari l’occasione per ripensare a ciò che l’uomo rischia di trascurare o addirittura ha trascurato? Il mio aiuto poteva allora consistere nello sostare con il malato nell’attesa che la sua anima lo raggiungesse?’. La benedizione della malattia si rivela dunque nella possibilità per il corpo, finalmente lontano dalla realtà di tutti i giorni, di incontrare la propria anima!
La speranza, d’altra parte, richiede e suscita unità nel cuore; non si può vivere senza di essa.
Ma è possibile pensare e desiderare la speranza come dono che viene a noi in modo imprevedibile, come intervento non soltanto umano? Un dono che trascende le nostre possibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?
Alla radice di ogni esistenza è dunque presente una domanda di senso e di speranza, particolarmente drammatica oggi, perché si sono infranti quei processi attraverso cui il contesto culturale e sociale suggeriva piuttosto facilmente il significato dell’esistenza. Siamo diventati più maturi e insieme più soli (aggiunge Terzani: ‘Il grande progresso materiale non è andato di pari passo con il nostro progresso spirituale. Anzi, forse da questo punti di vista l’uomo non è mia stato tanto povero da quando è diventato così ricco’). Resta il bisogno di organizzare i frammenti, come le tessere di un mosaico. Tutti siamo in attesa di qualcuno che ci accolga e dia ragione alla nostra speranza; non siamo, infatti, esseri viventi il cui orizzonte è la morte, ma esseri mortali il cui orizzonte è la vita.
Nemica della speranza autentica è l’illusione” aggiunge la dottoressa “in quanto crea, nelle persone malate, un’ambivalenza ed esse si rifugiano in pensieri impossibile. Ci sono due tipi fondamentali di speranza e bisogna saperli distinguere:
• All’inizio della malattia terminale, la speranza è associata alle cure, al trattamento, al prolungamento della vita, il che è vero sia per il paziente, sia per la famiglia, sia per l’équipe…
• Quando queste speranze non sono più probabili, allora la speranza del malato terminale cambia, e si sposta su qualcosa che non è più associato alla cura, al trattamento o al prolungamento della vita. Le sue nuove speranze sono di più breve periodo, o hanno qualcosa a vedere con la vita dopo la morte o con le persone che lascia
È indispensabile ascoltare il paziente e rafforzare le sue speranze, non proiettare su di lui le nostre, altrimenti non potremo aiutarlo (E. Kubler-Ross).
La morte diventa dunque amica quando il crònos si fa kairòs, pienezza di vita. Essa regala il sorriso più sereno e in questa ricerca di gioia e serenità è molto importante l’introspezione personale, conoscendo i propri difetti e i propri limiti. Nella nostra vita, il dolore si trasforma quindi in un fuoco che plasma un gioiello dentro di noi, mentre le lacrime sono i diamanti che ci permettono di vedere le cose belle e straordinarie della vita, fondando così la nostra speranza.
Concludo citando alcuni versi di Jean Venier.
E intanto Dio dice:
"Trasformerò la valle di Acòr
in porta di speranza".
Il mistero è là. Dio dice:
"Se tu non fuggi
se tu penetri nel cuore della valle
nel profondo del tuo cuore
se tu accogli
tutto ciò che ti fa paura
tutti coloro che rifiuti
tutti coloro che ti mettono in pericolo
perché sono poveri, deboli, feriti
e fra loro prima di tutto il bambino ferito che
c'è in te
quello che tu hai murato
nel profondo
da così tanto tempo,
se tu l'accogli, se tu ti accogli
solo allora camminerai verso la guarigione
e la valle d'Acòr
diventerà la tua porta di speranza".
Scritto da Giulia il ottobre
“Molto spesso, il concetto di speranza si ritrova strettamente correlato a quello di felicità” esordisce la dottoressa Frigo, dirigente medico incaricato di cure palliative a Monfalcone. “Anche se sovente sembriamo ignorarlo, è la nostra vita quotidiana il luogo da cui sale la sete di felicità. Nasce con il primo anelito di vita e si spegne con l’ultimo.
L’esempio biblico di Giona ci insegna a questo proposito come anche l’esperienza del dolore ci accomuni tutti. La vita è infatti segnata in tutte le sue fasi e le sue forme dalla fragilità; eppure, essa è bella nonostante tutte le prove e le disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l’amore.
La speranza ha dunque a che fare con la gioia di vivere, suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare.
L’esperienza della fragilità, del limite, della malattia e della morte” continua la dottoressa “può insegnarci alcune cose fondamentali: nessuno di noi è eterno o onnipotente, è i beni più importanti sono la vita e l’amore; la malattia ci costringe a mettere nel giusto ordine le cose che contano davvero. A questo proposito, scrive Tiziano Terzani: ‘A pensarci bene, dopo un po’ il viaggio non era più una ricerca di una cura per il mio cancro, ma per quella malattia che è di tutti: la mortalità’ (La fine è il mio inizio). ‘La malattia’ scrive Giovanni Marchioro ‘avrebbe potuto essere per il malato ed i familiari l’occasione per ripensare a ciò che l’uomo rischia di trascurare o addirittura ha trascurato? Il mio aiuto poteva allora consistere nello sostare con il malato nell’attesa che la sua anima lo raggiungesse?’. La benedizione della malattia si rivela dunque nella possibilità per il corpo, finalmente lontano dalla realtà di tutti i giorni, di incontrare la propria anima!
La speranza, d’altra parte, richiede e suscita unità nel cuore; non si può vivere senza di essa.
Ma è possibile pensare e desiderare la speranza come dono che viene a noi in modo imprevedibile, come intervento non soltanto umano? Un dono che trascende le nostre possibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?
Alla radice di ogni esistenza è dunque presente una domanda di senso e di speranza, particolarmente drammatica oggi, perché si sono infranti quei processi attraverso cui il contesto culturale e sociale suggeriva piuttosto facilmente il significato dell’esistenza. Siamo diventati più maturi e insieme più soli (aggiunge Terzani: ‘Il grande progresso materiale non è andato di pari passo con il nostro progresso spirituale. Anzi, forse da questo punti di vista l’uomo non è mia stato tanto povero da quando è diventato così ricco’). Resta il bisogno di organizzare i frammenti, come le tessere di un mosaico. Tutti siamo in attesa di qualcuno che ci accolga e dia ragione alla nostra speranza; non siamo, infatti, esseri viventi il cui orizzonte è la morte, ma esseri mortali il cui orizzonte è la vita.
Nemica della speranza autentica è l’illusione” aggiunge la dottoressa “in quanto crea, nelle persone malate, un’ambivalenza ed esse si rifugiano in pensieri impossibile. Ci sono due tipi fondamentali di speranza e bisogna saperli distinguere:
• All’inizio della malattia terminale, la speranza è associata alle cure, al trattamento, al prolungamento della vita, il che è vero sia per il paziente, sia per la famiglia, sia per l’équipe…
• Quando queste speranze non sono più probabili, allora la speranza del malato terminale cambia, e si sposta su qualcosa che non è più associato alla cura, al trattamento o al prolungamento della vita. Le sue nuove speranze sono di più breve periodo, o hanno qualcosa a vedere con la vita dopo la morte o con le persone che lascia
È indispensabile ascoltare il paziente e rafforzare le sue speranze, non proiettare su di lui le nostre, altrimenti non potremo aiutarlo (E. Kubler-Ross).
La morte diventa dunque amica quando il crònos si fa kairòs, pienezza di vita. Essa regala il sorriso più sereno e in questa ricerca di gioia e serenità è molto importante l’introspezione personale, conoscendo i propri difetti e i propri limiti. Nella nostra vita, il dolore si trasforma quindi in un fuoco che plasma un gioiello dentro di noi, mentre le lacrime sono i diamanti che ci permettono di vedere le cose belle e straordinarie della vita, fondando così la nostra speranza.
Concludo citando alcuni versi di Jean Venier.
E intanto Dio dice:
"Trasformerò la valle di Acòr
in porta di speranza".
Il mistero è là. Dio dice:
"Se tu non fuggi
se tu penetri nel cuore della valle
nel profondo del tuo cuore
se tu accogli
tutto ciò che ti fa paura
tutti coloro che rifiuti
tutti coloro che ti mettono in pericolo
perché sono poveri, deboli, feriti
e fra loro prima di tutto il bambino ferito che
c'è in te
quello che tu hai murato
nel profondo
da così tanto tempo,
se tu l'accogli, se tu ti accogli
solo allora camminerai verso la guarigione
e la valle d'Acòr
diventerà la tua porta di speranza".
Scritto da Giulia il ottobre