Preghiera d'inizio
Sir 14,1-10
[1] Beato l'uomo che non ha peccato con le parole e non è tormentato dal rimorso dei peccati.
[2] Beato chi non ha nulla da rimproverarsi e chi non ha perduto la sua speranza.
[3] A un uomo gretto non conviene la ricchezza, a che servono gli averi a un uomo avaro?
[4] Chi accumula a forza di privazioni accumula per altri, con i suoi beni faran festa gli estranei.
[5] Chi è cattivo con se stesso con chi si mostrerà buono? Non sa godere delle sue ricchezze.
[6] Nessuno è peggiore di chi tormenta se stesso; questa è la ricompensa della sua malizia.
[7] Se fa il bene, lo fa per distrazione; ma alla fine mostrerà la sua malizia.
[8] È malvagio l'uomo dall'occhio invidioso; volge altrove lo sguardo e disprezza la vita altrui.
[9] L'occhio dell'avaro non si accontenta di una parte, l'insana cupidigia inaridisce l'anima sua.
[10] Un occhio cattivo è invidioso anche del pane e sulla sua tavola esso manca.
Lc 12,15
E disse loro: "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni".
Sal 119, 1.10-16.27-37
[1]Beato l'uomo di integra condotta, che cammina nella legge del Signore.
[10] Con tutto il cuore ti cerco: non farmi deviare dai tuoi precetti.
[11] Conservo nel cuore le tue parole per non offenderti con il peccato.
[12] Benedetto sei tu, Signore; mostrami il tuo volere.
[13] Con le mie labbra ho enumerato tutti i giudizi della tua bocca.
[14] Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene.
[15] Voglio meditare i tuoi comandamenti, considerare le tue vie.
[16] Nella tua volontà è la mia gioia; mai dimenticherò la tua parola.
[27] Fammi conoscere la via dei tuoi precetti e mediterò i tuoi prodigi.
[28] Io piango nella tristezza; sollevami secondo la tua promessa.
[29] Tieni lontana da me la via della menzogna, fammi dono della tua legge.
[30] Ho scelto la via della giustizia, mi sono proposto i tuoi giudizi.
[31] Ho aderito ai tuoi insegnamenti, Signore, che io non resti confuso.
[32] Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore.
[33] Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine.
[34] Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore.
[35] Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi, perché in esso è la mia gioia.
[36] Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno.
[37] Distogli i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via.
Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseg¬gi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), pp. 336-337.
L'avarizia è il più stupido dei vizi capitali perché gode di una possibilità, o se si preferisce di un potere, che non si realizza mai. Il denaro accumulato dall'avaro, infatti, ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso. Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l'avaro capovolge il rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un "mezzo" per il raggiungimento di quei "fini" che sono l'acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni, considera il denaro un fine, per il possesso del quale si deve sacrificare l'acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri. Il desiderio dell'avaro non va mai al di là del denaro, perché agli occhi dell'avaro il denaro non è un mezzo per qualcos'altro, ma un fine in sé, anzi la forma pura del potere che il denaro possiede alla sola condizione di non essere speso. Per l'avaro, che gode del valore definitivo e per lui assolutamente soddisfacente del potere espresso dal denaro, tutti gli altri beni si trovano alla periferia dell'esistenza, e da ognuno di essi parte un raggio diretto che porta unicamente al suo centro: il denaro, che tutti li può acquistare, ma insieme non li può acquistare, se non al prezzo di perdere il potere che il denaro porta racchiuso in sé. Il primo a cogliere questo capovolgimento del "mezzo" in "fine" che porta all'assolutizzazione del valore del denaro è stato Marx che, commentando alcune pagine di Shakespeare e di Goethe, di cui era grande lettore, scrive:
Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua repulsività, è annullato dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono. Il denaro, inoltre, mi toglie la pena di essere disonesto, e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comprarsi le persone intel¬ligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è più intelligente delle persone intelligenti? Io, che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che mi unisce alla società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli, il vero cemento, la forza galvano chimica della società?'
Così ragiona l'avaro (e secondo Marx anche il capitalista) per il quale l'avere è il fondamento del suo essere, la garanzia della sua identità: "Io sono ciò che ho". Per lui la proprietà privata (dal latino privare che significa "portar via agli altri") non è finalizzata all'uso, ma al possesso. E siccome l'avaro non può usare ciò che possiede se non perdendolo e quindi perdendo la stia stessa identità, consegnata per intero al possesso del denaro, l'avaro è condannato a una vita ascetica che Marx descrive come:
Rinuncia a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Infatti, quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l'economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza, e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con 1'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto questo; può tutto comprare: esso è il vero e proprio potere. Così tutte le passioni e tutte le attività devono ridursi all'avidità di denaro.2
Quando il denaro diventa il fine ultimo, tutti i beni che non sono di natura economica come l'intelligenza, la cultura, l'arte, la forza, la bellezza, l'amore, per l'avaro cessano di essere valori in sé, perché lo diventano limitatamente alla loro convertibilità in denaro che, a questo punto, si presenta agli occhi dell'avaro come la forma astratta di tutti i piaceri che tuttavia non vengono goduti. Il denaro, infatti, come mezzo assosluto, rivolge lo sguardo a illimitate possibilità di godimento, e nello stesso tempo, come mezzo inutilizzato, non sfiora neppure il godimento. `
Siamo soliti chiamare "avari" quelle persone che non gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul retro delle pagine utilizzate, che non sprecano uno spago, che cercano ogni ago perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno, che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene costoro non sono "avari" perché non pensano al valore in denaro degli oggetti che non sprecano, ma proprio al loro valore materiale, che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono avari, ma parsimoniosi, perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle "cose in se stesse", ma solo a ciò che esse "rappresentano in denaro". Un denaro che non deve essere speso, perché altrimenti si volatilizzano le possibilità che il denaro promette. Ma allora perché essere avari? Che cosa spinge ad ac¬cumulare denaro da non utilizzare? Da quale angoscia si difende l'avaro? E che dimensioni deve avere questa angoscia per rendere sopportabile una vita di rinuncia e di ascesi?L'avaro ha il terrore del futuro, da cui si garantisce scegliendo un tipo di potere che non si esprime in ciò che è disponibile ed effettivo nel presente (come accade ad esempio al potere politico, il cui futuro però è incerto), preferendogli un potere più raffinato, un potere che non si esercita nel presente, ma che nel futuro può essere esercitato in qualsiasi momento.
Di questa possibilità gode l'avaro e la protrae fino al giorno della sua morte, che è sempre una morte disperata, non perché l'avaro in quell'occasione è costretto a separarsi dal suo denaro, ma perché è costretto a separarsi dal futuro, per garantirsi il quale ha accumulato denaro per tutta la vita. Quindi l'avaro ha paura della morte, non accetta la condizione di mortale che è propria dell'uomo, per questo il suo vizio è davvero un "vizio capitale".
Ma non basta. L:esperienza della morte, ognuno di noi lo sa, non è qualcosa che incontriamo solo nell'atto finale della nostra vita, ma qualcosa che costella la quotidianità della nostra esistenza, ogni volta che il nostro desiderio non trova un adeguato appagamento e resta "morti-ficato". Nella dialettica desiderio-appagamento, l'avaro vuole evitare qualsiasi "mortificazione" che possa essere un'esperienza allusiva della morte. E allora non chiede al denaro di acquistare l'oggetto che appaga il desiderio, perché l'oggetto potrebbe nascondere sorprese e delusioni. Al denaro l'avaro non chiede niente se non il puro possesso, che se da un lato gli garantisce una possibilità infinita, dall'altro lo mette al riparo da ogni delusione. Se volessimo leggere i destini umani nello schema dei rapporti tra il desiderio e il suo appagamento, non possiamo negare che il denaro se da un lato è l'oggetto inadeguato all'appagamento, dall'altro è senza dubbio il più adeguato al nostro desiderio perché, prima che venga speso, il denaro sviluppa un sentimento di potenza assoluto. L'avarizia è allora una forma della volontà di potenza che, per mantenersi, non deve mai esercitarsi. La sua potenza deve rimanere soltanto potenza e non trasformarsi mai nel proprio esercizio e nel suo godimento, perché il potere espresso dal denaro, se venisse trasformato in godimento di cose concrete, andrebbe perduto come potere.
Ma questa non è vita. No, ma è proprio lo sforzo messo in atto per esorcizzare la morte ad avere come suo effetto quello di anticiparla e diffonderla su tutto l'arco della vita. Questo è il lavoro dell'avarizia: proibire la vita, contrarla fino a renderla definitivamente non vissuta.
(U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2007 Feltrinelli)
Scritto da Giulia il agosto 23 2011 09:56:52
Sir 14,1-10
[1] Beato l'uomo che non ha peccato con le parole e non è tormentato dal rimorso dei peccati.
[2] Beato chi non ha nulla da rimproverarsi e chi non ha perduto la sua speranza.
[3] A un uomo gretto non conviene la ricchezza, a che servono gli averi a un uomo avaro?
[4] Chi accumula a forza di privazioni accumula per altri, con i suoi beni faran festa gli estranei.
[5] Chi è cattivo con se stesso con chi si mostrerà buono? Non sa godere delle sue ricchezze.
[6] Nessuno è peggiore di chi tormenta se stesso; questa è la ricompensa della sua malizia.
[7] Se fa il bene, lo fa per distrazione; ma alla fine mostrerà la sua malizia.
[8] È malvagio l'uomo dall'occhio invidioso; volge altrove lo sguardo e disprezza la vita altrui.
[9] L'occhio dell'avaro non si accontenta di una parte, l'insana cupidigia inaridisce l'anima sua.
[10] Un occhio cattivo è invidioso anche del pane e sulla sua tavola esso manca.
Lc 12,15
E disse loro: "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni".
Sal 119, 1.10-16.27-37
[1]Beato l'uomo di integra condotta, che cammina nella legge del Signore.
[10] Con tutto il cuore ti cerco: non farmi deviare dai tuoi precetti.
[11] Conservo nel cuore le tue parole per non offenderti con il peccato.
[12] Benedetto sei tu, Signore; mostrami il tuo volere.
[13] Con le mie labbra ho enumerato tutti i giudizi della tua bocca.
[14] Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene.
[15] Voglio meditare i tuoi comandamenti, considerare le tue vie.
[16] Nella tua volontà è la mia gioia; mai dimenticherò la tua parola.
[27] Fammi conoscere la via dei tuoi precetti e mediterò i tuoi prodigi.
[28] Io piango nella tristezza; sollevami secondo la tua promessa.
[29] Tieni lontana da me la via della menzogna, fammi dono della tua legge.
[30] Ho scelto la via della giustizia, mi sono proposto i tuoi giudizi.
[31] Ho aderito ai tuoi insegnamenti, Signore, che io non resti confuso.
[32] Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore.
[33] Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine.
[34] Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore.
[35] Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi, perché in esso è la mia gioia.
[36] Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno.
[37] Distogli i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via.
Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseg¬gi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), pp. 336-337.
L'avarizia è il più stupido dei vizi capitali perché gode di una possibilità, o se si preferisce di un potere, che non si realizza mai. Il denaro accumulato dall'avaro, infatti, ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso. Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l'avaro capovolge il rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un "mezzo" per il raggiungimento di quei "fini" che sono l'acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni, considera il denaro un fine, per il possesso del quale si deve sacrificare l'acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri. Il desiderio dell'avaro non va mai al di là del denaro, perché agli occhi dell'avaro il denaro non è un mezzo per qualcos'altro, ma un fine in sé, anzi la forma pura del potere che il denaro possiede alla sola condizione di non essere speso. Per l'avaro, che gode del valore definitivo e per lui assolutamente soddisfacente del potere espresso dal denaro, tutti gli altri beni si trovano alla periferia dell'esistenza, e da ognuno di essi parte un raggio diretto che porta unicamente al suo centro: il denaro, che tutti li può acquistare, ma insieme non li può acquistare, se non al prezzo di perdere il potere che il denaro porta racchiuso in sé. Il primo a cogliere questo capovolgimento del "mezzo" in "fine" che porta all'assolutizzazione del valore del denaro è stato Marx che, commentando alcune pagine di Shakespeare e di Goethe, di cui era grande lettore, scrive:
Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua repulsività, è annullato dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono. Il denaro, inoltre, mi toglie la pena di essere disonesto, e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comprarsi le persone intel¬ligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è più intelligente delle persone intelligenti? Io, che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che mi unisce alla società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli, il vero cemento, la forza galvano chimica della società?'
Così ragiona l'avaro (e secondo Marx anche il capitalista) per il quale l'avere è il fondamento del suo essere, la garanzia della sua identità: "Io sono ciò che ho". Per lui la proprietà privata (dal latino privare che significa "portar via agli altri") non è finalizzata all'uso, ma al possesso. E siccome l'avaro non può usare ciò che possiede se non perdendolo e quindi perdendo la stia stessa identità, consegnata per intero al possesso del denaro, l'avaro è condannato a una vita ascetica che Marx descrive come:
Rinuncia a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Infatti, quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l'economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza, e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con 1'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto questo; può tutto comprare: esso è il vero e proprio potere. Così tutte le passioni e tutte le attività devono ridursi all'avidità di denaro.2
Quando il denaro diventa il fine ultimo, tutti i beni che non sono di natura economica come l'intelligenza, la cultura, l'arte, la forza, la bellezza, l'amore, per l'avaro cessano di essere valori in sé, perché lo diventano limitatamente alla loro convertibilità in denaro che, a questo punto, si presenta agli occhi dell'avaro come la forma astratta di tutti i piaceri che tuttavia non vengono goduti. Il denaro, infatti, come mezzo assosluto, rivolge lo sguardo a illimitate possibilità di godimento, e nello stesso tempo, come mezzo inutilizzato, non sfiora neppure il godimento. `
Siamo soliti chiamare "avari" quelle persone che non gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul retro delle pagine utilizzate, che non sprecano uno spago, che cercano ogni ago perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno, che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene costoro non sono "avari" perché non pensano al valore in denaro degli oggetti che non sprecano, ma proprio al loro valore materiale, che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono avari, ma parsimoniosi, perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle "cose in se stesse", ma solo a ciò che esse "rappresentano in denaro". Un denaro che non deve essere speso, perché altrimenti si volatilizzano le possibilità che il denaro promette. Ma allora perché essere avari? Che cosa spinge ad ac¬cumulare denaro da non utilizzare? Da quale angoscia si difende l'avaro? E che dimensioni deve avere questa angoscia per rendere sopportabile una vita di rinuncia e di ascesi?L'avaro ha il terrore del futuro, da cui si garantisce scegliendo un tipo di potere che non si esprime in ciò che è disponibile ed effettivo nel presente (come accade ad esempio al potere politico, il cui futuro però è incerto), preferendogli un potere più raffinato, un potere che non si esercita nel presente, ma che nel futuro può essere esercitato in qualsiasi momento.
Di questa possibilità gode l'avaro e la protrae fino al giorno della sua morte, che è sempre una morte disperata, non perché l'avaro in quell'occasione è costretto a separarsi dal suo denaro, ma perché è costretto a separarsi dal futuro, per garantirsi il quale ha accumulato denaro per tutta la vita. Quindi l'avaro ha paura della morte, non accetta la condizione di mortale che è propria dell'uomo, per questo il suo vizio è davvero un "vizio capitale".
Ma non basta. L:esperienza della morte, ognuno di noi lo sa, non è qualcosa che incontriamo solo nell'atto finale della nostra vita, ma qualcosa che costella la quotidianità della nostra esistenza, ogni volta che il nostro desiderio non trova un adeguato appagamento e resta "morti-ficato". Nella dialettica desiderio-appagamento, l'avaro vuole evitare qualsiasi "mortificazione" che possa essere un'esperienza allusiva della morte. E allora non chiede al denaro di acquistare l'oggetto che appaga il desiderio, perché l'oggetto potrebbe nascondere sorprese e delusioni. Al denaro l'avaro non chiede niente se non il puro possesso, che se da un lato gli garantisce una possibilità infinita, dall'altro lo mette al riparo da ogni delusione. Se volessimo leggere i destini umani nello schema dei rapporti tra il desiderio e il suo appagamento, non possiamo negare che il denaro se da un lato è l'oggetto inadeguato all'appagamento, dall'altro è senza dubbio il più adeguato al nostro desiderio perché, prima che venga speso, il denaro sviluppa un sentimento di potenza assoluto. L'avarizia è allora una forma della volontà di potenza che, per mantenersi, non deve mai esercitarsi. La sua potenza deve rimanere soltanto potenza e non trasformarsi mai nel proprio esercizio e nel suo godimento, perché il potere espresso dal denaro, se venisse trasformato in godimento di cose concrete, andrebbe perduto come potere.
Ma questa non è vita. No, ma è proprio lo sforzo messo in atto per esorcizzare la morte ad avere come suo effetto quello di anticiparla e diffonderla su tutto l'arco della vita. Questo è il lavoro dell'avarizia: proibire la vita, contrarla fino a renderla definitivamente non vissuta.
(U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2007 Feltrinelli)
Scritto da Giulia il agosto 23 2011 09:56:52