Mercoledì 29 Gennaio 2013, ore 18.30
Incontro di spiritualità: San Paolo
Dopo aver letto insieme un passo di San Paolo, don marco ha presentato al gruppo quattro testimonianze di fede, ciascuna secondo uno schema diverso. Ha voluto infatti sollecitare a “credere in maniera consapevole” e di confrontarsi con le proposte, per trovare ciascuno la propria o per rapportarla a quella di San Paolo.
Il primo è stato Sant’Agostino, che, venendo da un altro mondo, si chiedeva chi e perché credesse. Per lui si credeva in cose indimostrabili, invisibili, per sentito dire, per agire in maniera pratica. La condizione dell’uomo è tale: non è una debolezza, ma la prassi quotidiana. In questa idea non è strano che la religione cristiana ci chieda di credere. Il motto che può essere associato a questo pensiero è “credo ut intelligam”. Credere che le cose siano un segno è l’unico modo per arrivare ad esse, e le parole sono uno strumento; come dice Hegel infatti la filosofia arriva sempre in ritardo. Perché credere che la democrazia è la migliore forma di governo? Perché credere che Cristo possa attraversare la tradizione? Abbiamo creduto a cose a cui non era il caso di credere, ma questo dipende anche dalle fasi di maturazione della vita.
Il secondo è stato San Tommaso d’Aquino, a cui invece viene associato il motto “Intelligo ut credam”. Con impronta prettamente scolastica, nel capire si trova la ragione per credere. Partendo da una constatazione della realtà, da ciò che è più affine alla nostra natura, con dei “preambula fidei”, si comprende che non è possibile che il mondo creato da Dio sia in conflitto con la realtà, poiché faccio parte dell’umanità e cammino.
Pascal è il terzo, per il quale non si chiede qualcosa di contrario alla ragione con la fede, perché entrambe hanno Dio come origine, entrambe sono plausibili. Le ragioni della fede non sono preambolo a niente. Le ragioni della ragione non portano a niente. Moderno e irrazionale, Pascal è vicino alla sensibilità: Dio è incomprensibile, la nostra conoscenza non ci fa avanzare un passo verso di Lui. Ha sradicato le ragioni per credere non per smontarla, bensì per essere più spontanei, per trovare l’accoglienza. Lo stesso fa Kant quando vuole demolire le superstizioni. A differenza di San Tommaso, che ritiene che tutto vada bene, Pascal, non credendo inizialmente, non trova però motivo di non credere. Sviluppa due possibilità: quella della grazia, per cui solo Dio salva e concede la fede, quella della scommessa, per cui se Dio non tocca il cuore non si può non credere. Alla domanda del perché farlo risponde che si ottiene qualcosa di sostanziale in cambio di niente: la vita eterna.
L’ultimo pensatore proposto è stato William James, che porta avanti la teoria della volontà di credere. Non si può credere a qualcosa che non si può dimostrare, ma la scientificità nelle scelte non ha senso. Alcune risposte si danno in base alla volontà di credere. Nessuno è diventato religioso per scommessa, ma siamo indotti dalla nostra natura a scegliere, ancora prima della ragione, e questa passione si manifesta come volontà di credere e vuole essere rivendicata per credere. Il mondo esiste e rispetto ad esso ci comportiamo in un modo. E se il mondo non esistesse? Nelle grandi questioni morali, nel rapporto con gli altri esseri umani il mondo non esiste già, e non c’è scienza che lo produce, che lo plasma. Se siamo con una persona, non è determinabile in maniera oggettiva. La fede è una scelta forse dipendente dalla grazia, ma soprattutto è volitiva, viene da noi, dalla nostra posizione volitiva e sociale.
Dopo aver riproposto un confronto con questi pensatori per riconoscersi nel loro modo di vivere la fede, si è proceduto con la lettura del capitolo 5 e 6 della prima lettera ai Corinzi. Leggendo insieme si è scorso il testo, sollecitando ciascuno delle questioni riguardo i termini scelti, le ragioni di San Paolo di scrivere delle affermazioni, la storicità delle lettere. I capitoli riguardavano la carnalità del popolo di Corinto, l’immoralità di cui parla il testo. Nel lessico si sono riscontrate parole significative, come carne, che indica la finitudine esistenziale, l’uomo peccatore in generale, e lievito, che corrompe il pane e che simboleggia la necessità del ritorno alla purezza. In questo senso vanno intese le parole “Diventate ciò che siete”, cioè pane puro. Nel testo si fa anche riferimento a “quelli di fuori”, esterni alla comunità, i pagani. Infatti i cristiani lì presenti sono dei convertiti al cristianesimo, per cui si parla di interno ed esterno relativamente allo stesso popolo.
Alessandra ha chiesto il significato di “consegnato” nel versetto 5 del capitolo 5°, a cui è stato consigliato di confrontarlo con altri termini per capire le traduzioni. Don Marco ha fatto notare che nel capitolo 6 il verbo “giudicare”, anche per indicare la giustizia di Dio. Si è riflettuto sul versetto 7 riguardo a quanto sia forte il concetto di sconfitta dell’avere liti vicendevoli. Si è discusso sulla differenza tra la traduzione “effemminati” nel versetto 10 da quella della bibbia interconfessionale “maniaci sessuali”: tanto la società era diversa, tanto la concezione dell’uomo e della donna, che l’espressione che una persona utilizza per esprimersi rimarca che si apparteneva a 2000 anni fa. La bibbia interconfessionale, che vuole tradurre il significato più affine al tempo che si sta vivendo, si esprime con una cultura dell’uomo di molti anni di differenza, e questa esigenza di reinterpretare si è potuta notare anche con la revisione delle traduzioni per i testi letti in chiesa nel 2008. In seguito si è discusso dei possibili salvati, degli eredi del regno di Dio: c’è differenza tra un cristiano e un esterno alla comunità che si abbandona al piacere, poiché quest’ultimo non ha scelto Cristo. In Cristo si viene “lavati”, si può cambiare. Infine si è guardato a come all’esperienza del corpo in Dio. Dio è nel corpo, avere l’esperienza del mondo occorre per la percezione. Noi siamo di Dio. Cosa vuol dire essere corpo e non solo avere corpo, quello che è nell’uomo e che si è avuto da Dio. La salvezza del corpo rientra in questo: la salvezza passa attraverso la carne. Ed anche la dimensione cultica del corpo: essere “nel” e non “col” proprio corpo, poiché l’uomo che vive è nell’amore di Dio.
In seguito don Marco ha voluto lanciare alcune provocazioni: Quale visione del corpo sta emergendo? Cosa significa impurità? Cosa significa il destino? Nel capitolo 7 San Paolo elencherà una serie di norme e poi chiederà di comportarsi come sembra più giusto, ma dopo averci riflettuto bene! C’è un rapporto conflittuale tra la libertà e la sua concezione: fare quello che si vuole di se stessi può essere un concetto di libertà, ma infine darà la risposta a come utilizzarla, cioè attraverso la carità, criterio che supera la libertà. Qualsiasi peccato è fuori dal corpo: le motivazioni sono esterne ad esso e vengono dallo spirito, ed in questo senso è il paragone con i cibi e il ventre del versetto 13. Alberto ha chiesto cosa c’entra nella bellezza dello spirito tutta quest’attenzione per il corpo, per quale motivo si presta attenzione ad esso se viene distrutto? Don Marco ha fatto notare che Paolo affronta dei problemi pastorali, che le lettere non sono tutte uguali. In questa lettera argomenta tre parti, una sui problemi interni alla comunità, una riguardo a quelli concreti di morale e infine la questione del culto. Inserire delle domande nella lettura, ragionare sulla nostra spiritualità occorre per capire perché si è cristiani. Non si dimentichi che la dimensione cristologica del corpo ci fa riflettere sul fatto che Dio ha assunto un corpo umano. In cosa crediamo? Cosa vuol dire credere? Cosa è coinvolto di noi? La percezione di sé nella preghiera esiste? “Caro salutis cardo” di Tertulliano può esprimere che non c’è salvezza che non passi per il corpo. Il cristianesimo è forse vissuto per sentito dire? Occorre pensarci e non è strano per un cristiano, anche per la costruzione della propria identità, nella creazione della percezione di sé, nella corporeità. Dopo aver consigliato alcuni libri (Luciano Manicardi, “Il corpo”, Carlo Maria Martini “Sul corpo” e Comunità di Bose “Il corpo e lo spirito”) don Marco ha sollecitato a domandarsi quanto la nostra spiritualità sia legata al corpo, quanto la spiritualità ci salvi, quanto ricorriamo ad essa, quanto crediamo alla salvezza del corpo. Il dualismo del corpo e dell’anima non è platonismo soltanto, ma anche agnosticismo. C’è una teologia del corpo, che non è sconosciuto per un cristiano: quando siamo nati qualcuno ci ha accolti e non come spirito. Giacomo a sostegno di ciò ha ricordato come i cristiani seppellivano i morti, ma non li incenerivano come i pagani. La mortificazione del corpo infine è stata segnalata da don Marco come un modo per vivificare quello che proviamo, ma non oltre. In queste sollecitazioni ha voluto anche sottolineare anche che di fronte a opinioni contrarie non bisogna irritarsi troppo, perché non assolutizziamo ciò che pensiamo. Filippo ha detto poiché al corpo si può pensare anche senza la spiritualità, esso segnala la presenza della persona, non si vive senza il corpo. Molto vuol dire avere un bello o un brutto aspetto: si può vedere un carattere esistenziale nel corpo, che rende felici o tristi. La salvezza in questo senso può passare attraverso il corpo. Giacomo ha chiesto perché il radicalismo di San Paolo nel ritenere che Cristo ci ha comprati a caro prezzo bisogni coinvolgere la purezza della persona e la sua contaminazione con l’impurezza. Carlotta ha risposto che la contaminazione va letta nel gesto che un cristiano compie.
Don Marco infine ha ripreso le redini del discorso e ha sottolineato che le religioni hanno la pretesa di interpretare per tutta l’umanità certe situazioni in modo più generale, che San Paolo ha usato una lente di fronte aduna situazione, non può essere generalizzato. Bisogna leggere inserendosi nel contesto: costruire e sostenere una comunità dispersa è il suo primo obiettivo. Per questo sollecita con un “tutto mi è lecito”, sapendo che si è liberi e che si è di Dio. “Vocatis estis ad libertatem”, ma quale liebrtà?
In conclusione della riunione i presidenti hanno ricordato che bisogna dare i nominativi per le giornate di orientamento al centro universitario e che una veglia per la giornata della pace è stata organizzata a Treviso, alla quale siamo stati invitati dalla presidenza del Triveneto.
Incontro di spiritualità: San Paolo
Dopo aver letto insieme un passo di San Paolo, don marco ha presentato al gruppo quattro testimonianze di fede, ciascuna secondo uno schema diverso. Ha voluto infatti sollecitare a “credere in maniera consapevole” e di confrontarsi con le proposte, per trovare ciascuno la propria o per rapportarla a quella di San Paolo.
Il primo è stato Sant’Agostino, che, venendo da un altro mondo, si chiedeva chi e perché credesse. Per lui si credeva in cose indimostrabili, invisibili, per sentito dire, per agire in maniera pratica. La condizione dell’uomo è tale: non è una debolezza, ma la prassi quotidiana. In questa idea non è strano che la religione cristiana ci chieda di credere. Il motto che può essere associato a questo pensiero è “credo ut intelligam”. Credere che le cose siano un segno è l’unico modo per arrivare ad esse, e le parole sono uno strumento; come dice Hegel infatti la filosofia arriva sempre in ritardo. Perché credere che la democrazia è la migliore forma di governo? Perché credere che Cristo possa attraversare la tradizione? Abbiamo creduto a cose a cui non era il caso di credere, ma questo dipende anche dalle fasi di maturazione della vita.
Il secondo è stato San Tommaso d’Aquino, a cui invece viene associato il motto “Intelligo ut credam”. Con impronta prettamente scolastica, nel capire si trova la ragione per credere. Partendo da una constatazione della realtà, da ciò che è più affine alla nostra natura, con dei “preambula fidei”, si comprende che non è possibile che il mondo creato da Dio sia in conflitto con la realtà, poiché faccio parte dell’umanità e cammino.
Pascal è il terzo, per il quale non si chiede qualcosa di contrario alla ragione con la fede, perché entrambe hanno Dio come origine, entrambe sono plausibili. Le ragioni della fede non sono preambolo a niente. Le ragioni della ragione non portano a niente. Moderno e irrazionale, Pascal è vicino alla sensibilità: Dio è incomprensibile, la nostra conoscenza non ci fa avanzare un passo verso di Lui. Ha sradicato le ragioni per credere non per smontarla, bensì per essere più spontanei, per trovare l’accoglienza. Lo stesso fa Kant quando vuole demolire le superstizioni. A differenza di San Tommaso, che ritiene che tutto vada bene, Pascal, non credendo inizialmente, non trova però motivo di non credere. Sviluppa due possibilità: quella della grazia, per cui solo Dio salva e concede la fede, quella della scommessa, per cui se Dio non tocca il cuore non si può non credere. Alla domanda del perché farlo risponde che si ottiene qualcosa di sostanziale in cambio di niente: la vita eterna.
L’ultimo pensatore proposto è stato William James, che porta avanti la teoria della volontà di credere. Non si può credere a qualcosa che non si può dimostrare, ma la scientificità nelle scelte non ha senso. Alcune risposte si danno in base alla volontà di credere. Nessuno è diventato religioso per scommessa, ma siamo indotti dalla nostra natura a scegliere, ancora prima della ragione, e questa passione si manifesta come volontà di credere e vuole essere rivendicata per credere. Il mondo esiste e rispetto ad esso ci comportiamo in un modo. E se il mondo non esistesse? Nelle grandi questioni morali, nel rapporto con gli altri esseri umani il mondo non esiste già, e non c’è scienza che lo produce, che lo plasma. Se siamo con una persona, non è determinabile in maniera oggettiva. La fede è una scelta forse dipendente dalla grazia, ma soprattutto è volitiva, viene da noi, dalla nostra posizione volitiva e sociale.
Dopo aver riproposto un confronto con questi pensatori per riconoscersi nel loro modo di vivere la fede, si è proceduto con la lettura del capitolo 5 e 6 della prima lettera ai Corinzi. Leggendo insieme si è scorso il testo, sollecitando ciascuno delle questioni riguardo i termini scelti, le ragioni di San Paolo di scrivere delle affermazioni, la storicità delle lettere. I capitoli riguardavano la carnalità del popolo di Corinto, l’immoralità di cui parla il testo. Nel lessico si sono riscontrate parole significative, come carne, che indica la finitudine esistenziale, l’uomo peccatore in generale, e lievito, che corrompe il pane e che simboleggia la necessità del ritorno alla purezza. In questo senso vanno intese le parole “Diventate ciò che siete”, cioè pane puro. Nel testo si fa anche riferimento a “quelli di fuori”, esterni alla comunità, i pagani. Infatti i cristiani lì presenti sono dei convertiti al cristianesimo, per cui si parla di interno ed esterno relativamente allo stesso popolo.
Alessandra ha chiesto il significato di “consegnato” nel versetto 5 del capitolo 5°, a cui è stato consigliato di confrontarlo con altri termini per capire le traduzioni. Don Marco ha fatto notare che nel capitolo 6 il verbo “giudicare”, anche per indicare la giustizia di Dio. Si è riflettuto sul versetto 7 riguardo a quanto sia forte il concetto di sconfitta dell’avere liti vicendevoli. Si è discusso sulla differenza tra la traduzione “effemminati” nel versetto 10 da quella della bibbia interconfessionale “maniaci sessuali”: tanto la società era diversa, tanto la concezione dell’uomo e della donna, che l’espressione che una persona utilizza per esprimersi rimarca che si apparteneva a 2000 anni fa. La bibbia interconfessionale, che vuole tradurre il significato più affine al tempo che si sta vivendo, si esprime con una cultura dell’uomo di molti anni di differenza, e questa esigenza di reinterpretare si è potuta notare anche con la revisione delle traduzioni per i testi letti in chiesa nel 2008. In seguito si è discusso dei possibili salvati, degli eredi del regno di Dio: c’è differenza tra un cristiano e un esterno alla comunità che si abbandona al piacere, poiché quest’ultimo non ha scelto Cristo. In Cristo si viene “lavati”, si può cambiare. Infine si è guardato a come all’esperienza del corpo in Dio. Dio è nel corpo, avere l’esperienza del mondo occorre per la percezione. Noi siamo di Dio. Cosa vuol dire essere corpo e non solo avere corpo, quello che è nell’uomo e che si è avuto da Dio. La salvezza del corpo rientra in questo: la salvezza passa attraverso la carne. Ed anche la dimensione cultica del corpo: essere “nel” e non “col” proprio corpo, poiché l’uomo che vive è nell’amore di Dio.
In seguito don Marco ha voluto lanciare alcune provocazioni: Quale visione del corpo sta emergendo? Cosa significa impurità? Cosa significa il destino? Nel capitolo 7 San Paolo elencherà una serie di norme e poi chiederà di comportarsi come sembra più giusto, ma dopo averci riflettuto bene! C’è un rapporto conflittuale tra la libertà e la sua concezione: fare quello che si vuole di se stessi può essere un concetto di libertà, ma infine darà la risposta a come utilizzarla, cioè attraverso la carità, criterio che supera la libertà. Qualsiasi peccato è fuori dal corpo: le motivazioni sono esterne ad esso e vengono dallo spirito, ed in questo senso è il paragone con i cibi e il ventre del versetto 13. Alberto ha chiesto cosa c’entra nella bellezza dello spirito tutta quest’attenzione per il corpo, per quale motivo si presta attenzione ad esso se viene distrutto? Don Marco ha fatto notare che Paolo affronta dei problemi pastorali, che le lettere non sono tutte uguali. In questa lettera argomenta tre parti, una sui problemi interni alla comunità, una riguardo a quelli concreti di morale e infine la questione del culto. Inserire delle domande nella lettura, ragionare sulla nostra spiritualità occorre per capire perché si è cristiani. Non si dimentichi che la dimensione cristologica del corpo ci fa riflettere sul fatto che Dio ha assunto un corpo umano. In cosa crediamo? Cosa vuol dire credere? Cosa è coinvolto di noi? La percezione di sé nella preghiera esiste? “Caro salutis cardo” di Tertulliano può esprimere che non c’è salvezza che non passi per il corpo. Il cristianesimo è forse vissuto per sentito dire? Occorre pensarci e non è strano per un cristiano, anche per la costruzione della propria identità, nella creazione della percezione di sé, nella corporeità. Dopo aver consigliato alcuni libri (Luciano Manicardi, “Il corpo”, Carlo Maria Martini “Sul corpo” e Comunità di Bose “Il corpo e lo spirito”) don Marco ha sollecitato a domandarsi quanto la nostra spiritualità sia legata al corpo, quanto la spiritualità ci salvi, quanto ricorriamo ad essa, quanto crediamo alla salvezza del corpo. Il dualismo del corpo e dell’anima non è platonismo soltanto, ma anche agnosticismo. C’è una teologia del corpo, che non è sconosciuto per un cristiano: quando siamo nati qualcuno ci ha accolti e non come spirito. Giacomo a sostegno di ciò ha ricordato come i cristiani seppellivano i morti, ma non li incenerivano come i pagani. La mortificazione del corpo infine è stata segnalata da don Marco come un modo per vivificare quello che proviamo, ma non oltre. In queste sollecitazioni ha voluto anche sottolineare anche che di fronte a opinioni contrarie non bisogna irritarsi troppo, perché non assolutizziamo ciò che pensiamo. Filippo ha detto poiché al corpo si può pensare anche senza la spiritualità, esso segnala la presenza della persona, non si vive senza il corpo. Molto vuol dire avere un bello o un brutto aspetto: si può vedere un carattere esistenziale nel corpo, che rende felici o tristi. La salvezza in questo senso può passare attraverso il corpo. Giacomo ha chiesto perché il radicalismo di San Paolo nel ritenere che Cristo ci ha comprati a caro prezzo bisogni coinvolgere la purezza della persona e la sua contaminazione con l’impurezza. Carlotta ha risposto che la contaminazione va letta nel gesto che un cristiano compie.
Don Marco infine ha ripreso le redini del discorso e ha sottolineato che le religioni hanno la pretesa di interpretare per tutta l’umanità certe situazioni in modo più generale, che San Paolo ha usato una lente di fronte aduna situazione, non può essere generalizzato. Bisogna leggere inserendosi nel contesto: costruire e sostenere una comunità dispersa è il suo primo obiettivo. Per questo sollecita con un “tutto mi è lecito”, sapendo che si è liberi e che si è di Dio. “Vocatis estis ad libertatem”, ma quale liebrtà?
In conclusione della riunione i presidenti hanno ricordato che bisogna dare i nominativi per le giornate di orientamento al centro universitario e che una veglia per la giornata della pace è stata organizzata a Treviso, alla quale siamo stati invitati dalla presidenza del Triveneto.