Preghiera d’inizio
Pro 14,29-31
[29] Il paziente ha grande prudenza, l'iracondo mostra stoltezza. [30] Un cuore tranquillo è la vita di tutto il corpo, l'invidia è la carie delle ossa. [31] Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora.
Mc 7,20-23
"Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. [21] Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini,
escono le intenzioni cattive:fornicazioni, furti, omicidi, [22] adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. [23] Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo".
1 Cor 3,1-3
[1] Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. [2] Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; [3] perché siete ancora carnali: dal momento che c'è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?
Salmo 119, 122-133
[122] Assicura il bene al tuo servo; non mi opprimano i superbi.
[123] I miei occhi si consumano nell'attesa della tua salvezza e della tua parola di giustizia.
[124] Agisci con il tuo servo secondo il tuo amore e insegnami i tuoi comandamenti.
[125] Io sono tuo servo, fammi comprendere e conoscerò i tuoi insegnamenti.
[126] È tempo che tu agisca, Signore; hanno violato la tua legge.
[127] Perciò amo i tuoi comandamenti più dell'oro, più dell'oro fino.
[128] Per questo tengo cari i tuoi precetti e odio ogni via di menzogna.
[129] Meravigliosa è la tua alleanza, per questo le sono fedele.
[130] La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici.
[131] Apro anelante la bocca, perché desidero i tuoi comandamenti.
[132] Volgiti a me e abbi misericordia, tu che sei giusto per chi ama il tuo nome.
[133] Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male.
L’invidia è quella disposizione che induce l'uomo a godere del male altrui e a rattri¬starsi, al contrario, dell'altrui bene. B. SPINOZA, Etica (1677), Parte III, proposi¬zione 24.
A differenza della lussuria, della superbia, della gola, l'invidia è forse l'unico vizio che non dà piacere. Eppure è molto diffuso e ciascuno di noi ne ha fatto esperienza per aver invidiato o essere stato invidiato. Evidentemente le sue radici nascoste affondano in quel nucleo profondo dove si raccoglie la nostra identità che, per costituirsi e crescere, ha bisogno del riconoscimento. Quando questo manca, la nostra identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza, e allora subentra l'invidia che vorrebbe conce¬dere, a chi è incapace di valorizzare se stesso, una salva¬guardia di sé nella demolizione dell'altro.
Più che un vizio, l'invidia è un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri. Un confronto che l'invidioso da un lato non sa reggere e dal¬l'altro non può evitare, perché sul confronto si regge l'inte¬ra impalcatura sociale.
Valutazioni quali: "meglio e peggio", "sopra e sotto", più e meno", "bene e male", "successo e insuccesso so¬no lì a dirci che non possiamo conoscere noi stessi se non confrontandoci con gli altri, per cui al fondo di ogni valutazione di noi, c'è sempre qualcuno con cui ci siamo confrontati. La dinamica di una società è l'effetto di que¬sta spinta comparativa. E chi dalla comparazione si sen¬te diminuito ricorre all'invidia per proteggere il proprio valore attraverso la svalutazione degli altri.
Tutto giustificato quindi? No. Se è vero infatti quel che dice Spinoza, secondo il quale l'esistenza è forza che può conservarsi solo espandendosi, l'invidia tende a contrarre l'espansione degli altri per l'incapacità di espandere se stessi, per cui è un'implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo di salvaguar¬dare la propria identità, finisce per comprimerla, per ar¬restarne lo slancio. Una strategia sbagliata, quindi, che non riesce a sottrarci al confronto che ci umilia e da cui l'invidia vorrebbe difenderci.
La strategia corretta sarebbe quella di rinunciare alle mete troppo alte quando le nostre forze o le nostre ca¬pacità non ci sembrano sufficienti o adeguate. "La ri¬nuncia non è sconfitta, bensì misura, atto di ragione." Ma come si fa a riconoscere i propri limiti in una so¬cietà come la nostra che spinge continuamente a oltre¬passare i limiti e ci riconosce solo se riusciamo a farlo?
Qui i Greci (e in generale il mondo antico) erano mol¬to più saggi di noi. Essi evitavano di attribuire le virtù e i successi agli individui, perché li interpretavano come dono degli dèi. Invidiare il beneficiato dal dio equivaleva a offendere il dio stesso, e questo era un atto di empietà. Di conseguenza la grandezza veniva venerata e, come ci ricorda Nietzsche, "la capacità di venerazione è tutt'altro che passività e asservimento, ma scaturisce dal ricono¬scimento di ciò che è grande".
Questo riconoscimento da un lato non limita e non ostacola ciò che cresce, dall'altro incentiva chi è capa¬ce di riconoscimento ad assumere la grandezza come modello. Per questo nel mondo antico, come la storia
greca e quella romana documentano, "1'avversario po¬teva essere combattuto e insieme ammirato, poteva es¬sere ucciso" e al tempo stesso riconosciuto nel suo va¬lore. In questo modo "la relazione sociale era contras¬segnata da un forte antagonismo, ma insieme scevra da invidie".
Ma poi, prosegue Nietzsche, al paganesimo greco-ro¬mano, che era capace di ammirare la virtù, ossia il valo¬re dell'altro, succede il cristianesimo che diffonde il principio dell'uguaglianza fra tutti gli uomini. Questo principio, se da un lato è stato alla base del riconosci¬mento della dignità dell'uomo, al di là della classe di ap¬partenenza, della proprietà, delle prerogative, dei privi¬legi e degli onori, dall'altro ha scatenato fra gli uomini l'invidia, perché, scrive Nietzsche:
Dove realmente l'uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fon¬data, nasce quell'inclinazione, considerata in complesso immo¬rale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibi¬le: l'invidia. L’invidioso, quando avverte ogni innalzamento so¬ciale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riab¬bassare fino a essa. [...] Egli pretende che quell'uguaglianza che l'uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E per ciò si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale (F. Nietzsche, Umano troppo umano. Un libro per spiriti liberi, Adelphi, Milano 1979).
Fu così che alla venerazione degli antichi subentrò l'invidia, prima dei cristiani che introdussero il princi¬pio dell'uguaglianza degli uomini, e poi dei moderni, cristiani o laici che fossero. Lo Stato moderno, infatti, nasce all'insegna dell'uguaglianza in base alla comune cittadinanza. Questo riconoscimento ha influito sulla mentalità corrente degli uomini sempre meno disposti a riconoscere il merito degli altri e ad approvare il succes¬so come conseguenza del merito.
In questo modo il sentimento di uguaglianza, un sen¬timento nobile e ormai condiviso in tutte le società civi¬li, paradossalmente ha moltiplicato le ragioni dell'invi¬dia, fino a intaccare e a modificare il concetto di giusti¬zia. Il marxismo, che da questo punto di vista è l'estre¬ma radicalizzazione del cristianesimo, ritiene infatti che la semplice uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è in grado di garantire una giustizia solamente formale, perché quella sostanziale può essere assicurata solo dall'uguaglianza economica, in modo che tutti pos¬sano disporre delle stesse opportunità.
A questo proposito assume particolare interesse la tesi di Helmut Schoeck secondo la quale l'invidia è uno tra i più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitaliste. Nelle prime, infatti, si utilizza l'invidia proletaria in funzione rivoluzionaria per instau¬rare un'uguaglianza in cui si svuotino le ragioni stesse dell'invidia; nelle seconde si "produce" e si "vende" invi¬dia per stimolare l'emulazione e quindi lo sviluppo del mercato. Inoltre non sfugge a nessuno che nelle stesse so¬cietà capitaliste molte politiche assistenziali e certe scelte economiche e finanziarie degli Stati moderni possono es¬sere lette come modalità sofisticate per calmare l'invidia che minaccia sempre di tradursi in rivoluzione possibile, anche se abbellita da nobili ideali per coprire profondi ri¬sentimenti.
Infatti "in una società in cui l'inuguaglianza è assunta come un dato naturale e intrasformabile si sarà indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell'altro e per ciò stesso sarà più facile tollerare il proprio limite", mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta in naturale, se non addirittura il prodotto dell'iniquità so¬ciale, l'invidia può rivestire i panni della virtù e trasfor¬marsi in istanza di giustizia, per cui diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortu¬na. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esi¬birle; in questo caso sarà portato ad accusare chi gliele chiede di essere mosso dall'invidia.
Questo può essere, ma perché mai un "vizio privato", come dicevano gli illuministi, non può trasformarsi in una "pubblica virtù"? Se l'invidia, invece di attorcigliarsi e incanaglirsi nel risentimento, diventa, nella comples¬sità del gioco sociale, una legittima resistenza all'arbi¬trio, ben venga l'invidia, dal momento che dalla società degli uguali di fronte alla legge non si può recedere.
Da queste considerazioni emerge che "1'invidia è quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, perché è la società che decide del valore degli individui", e nelle società capita¬liste il criterio di decisione è il successo. Nell'assunzione di questo criterio di riconoscimento cade, chiara come la luce, la differenza tra destra e sinistra. "Ogni indivi¬duo, infatti, potrebbe accettare il proprio limite" se poi, a riconoscimento avvenuto, la società non facesse cade¬re quest'individuo nell'irrilevanza.
In questo contesto, scrive Salvatore Natoli: "1'invidia è impotenza", o perché fallisce la meta troppo elevata per le proprie forze naturali, o perché la propria poten¬za è legata e impedita rispetto a una meta che sarebbe anche raggiungibile. Se ne deduce, prosegue Natoli, che: "l'impotenza ha un carattere costitutivamente rela¬zionale", nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale. E quando la società fa mancare il riconoscimento, magari per ragioni arbitrarie, non può evitare che l'impotenza si perverta in invidia, aumentando al suo interno la cir¬colazione di questo sentimento che impoverisce il mon¬do senza riuscire a valorizzare chi lo prova.
Questa è la ragione per cui l'invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai tra¬sparire, perché altrimenti darebbe a vedere la sua impo¬tenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza. Per cui l'in¬vidia, più che un vizio capitale, è un indotto sociale, e, fatta salva l'istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento "inutile" perché non approda al recupero della valorizzazione di sé, "doloroso" perché rabbuia e impoverisce il mondo, e per giunta è un sentimento che bisogna tenere "nascosto", senza quindi neppure il conforto che può venire dalla comunicazione.
U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2007 Feltrinelli
Scritto da Giulia il settembre 27 2011 19:17:59
Pro 14,29-31
[29] Il paziente ha grande prudenza, l'iracondo mostra stoltezza. [30] Un cuore tranquillo è la vita di tutto il corpo, l'invidia è la carie delle ossa. [31] Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora.
Mc 7,20-23
"Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. [21] Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini,
escono le intenzioni cattive:fornicazioni, furti, omicidi, [22] adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. [23] Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo".
1 Cor 3,1-3
[1] Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. [2] Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; [3] perché siete ancora carnali: dal momento che c'è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?
Salmo 119, 122-133
[122] Assicura il bene al tuo servo; non mi opprimano i superbi.
[123] I miei occhi si consumano nell'attesa della tua salvezza e della tua parola di giustizia.
[124] Agisci con il tuo servo secondo il tuo amore e insegnami i tuoi comandamenti.
[125] Io sono tuo servo, fammi comprendere e conoscerò i tuoi insegnamenti.
[126] È tempo che tu agisca, Signore; hanno violato la tua legge.
[127] Perciò amo i tuoi comandamenti più dell'oro, più dell'oro fino.
[128] Per questo tengo cari i tuoi precetti e odio ogni via di menzogna.
[129] Meravigliosa è la tua alleanza, per questo le sono fedele.
[130] La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici.
[131] Apro anelante la bocca, perché desidero i tuoi comandamenti.
[132] Volgiti a me e abbi misericordia, tu che sei giusto per chi ama il tuo nome.
[133] Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male.
L’invidia è quella disposizione che induce l'uomo a godere del male altrui e a rattri¬starsi, al contrario, dell'altrui bene. B. SPINOZA, Etica (1677), Parte III, proposi¬zione 24.
A differenza della lussuria, della superbia, della gola, l'invidia è forse l'unico vizio che non dà piacere. Eppure è molto diffuso e ciascuno di noi ne ha fatto esperienza per aver invidiato o essere stato invidiato. Evidentemente le sue radici nascoste affondano in quel nucleo profondo dove si raccoglie la nostra identità che, per costituirsi e crescere, ha bisogno del riconoscimento. Quando questo manca, la nostra identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza, e allora subentra l'invidia che vorrebbe conce¬dere, a chi è incapace di valorizzare se stesso, una salva¬guardia di sé nella demolizione dell'altro.
Più che un vizio, l'invidia è un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri. Un confronto che l'invidioso da un lato non sa reggere e dal¬l'altro non può evitare, perché sul confronto si regge l'inte¬ra impalcatura sociale.
Valutazioni quali: "meglio e peggio", "sopra e sotto", più e meno", "bene e male", "successo e insuccesso so¬no lì a dirci che non possiamo conoscere noi stessi se non confrontandoci con gli altri, per cui al fondo di ogni valutazione di noi, c'è sempre qualcuno con cui ci siamo confrontati. La dinamica di una società è l'effetto di que¬sta spinta comparativa. E chi dalla comparazione si sen¬te diminuito ricorre all'invidia per proteggere il proprio valore attraverso la svalutazione degli altri.
Tutto giustificato quindi? No. Se è vero infatti quel che dice Spinoza, secondo il quale l'esistenza è forza che può conservarsi solo espandendosi, l'invidia tende a contrarre l'espansione degli altri per l'incapacità di espandere se stessi, per cui è un'implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo di salvaguar¬dare la propria identità, finisce per comprimerla, per ar¬restarne lo slancio. Una strategia sbagliata, quindi, che non riesce a sottrarci al confronto che ci umilia e da cui l'invidia vorrebbe difenderci.
La strategia corretta sarebbe quella di rinunciare alle mete troppo alte quando le nostre forze o le nostre ca¬pacità non ci sembrano sufficienti o adeguate. "La ri¬nuncia non è sconfitta, bensì misura, atto di ragione." Ma come si fa a riconoscere i propri limiti in una so¬cietà come la nostra che spinge continuamente a oltre¬passare i limiti e ci riconosce solo se riusciamo a farlo?
Qui i Greci (e in generale il mondo antico) erano mol¬to più saggi di noi. Essi evitavano di attribuire le virtù e i successi agli individui, perché li interpretavano come dono degli dèi. Invidiare il beneficiato dal dio equivaleva a offendere il dio stesso, e questo era un atto di empietà. Di conseguenza la grandezza veniva venerata e, come ci ricorda Nietzsche, "la capacità di venerazione è tutt'altro che passività e asservimento, ma scaturisce dal ricono¬scimento di ciò che è grande".
Questo riconoscimento da un lato non limita e non ostacola ciò che cresce, dall'altro incentiva chi è capa¬ce di riconoscimento ad assumere la grandezza come modello. Per questo nel mondo antico, come la storia
greca e quella romana documentano, "1'avversario po¬teva essere combattuto e insieme ammirato, poteva es¬sere ucciso" e al tempo stesso riconosciuto nel suo va¬lore. In questo modo "la relazione sociale era contras¬segnata da un forte antagonismo, ma insieme scevra da invidie".
Ma poi, prosegue Nietzsche, al paganesimo greco-ro¬mano, che era capace di ammirare la virtù, ossia il valo¬re dell'altro, succede il cristianesimo che diffonde il principio dell'uguaglianza fra tutti gli uomini. Questo principio, se da un lato è stato alla base del riconosci¬mento della dignità dell'uomo, al di là della classe di ap¬partenenza, della proprietà, delle prerogative, dei privi¬legi e degli onori, dall'altro ha scatenato fra gli uomini l'invidia, perché, scrive Nietzsche:
Dove realmente l'uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fon¬data, nasce quell'inclinazione, considerata in complesso immo¬rale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibi¬le: l'invidia. L’invidioso, quando avverte ogni innalzamento so¬ciale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riab¬bassare fino a essa. [...] Egli pretende che quell'uguaglianza che l'uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E per ciò si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale (F. Nietzsche, Umano troppo umano. Un libro per spiriti liberi, Adelphi, Milano 1979).
Fu così che alla venerazione degli antichi subentrò l'invidia, prima dei cristiani che introdussero il princi¬pio dell'uguaglianza degli uomini, e poi dei moderni, cristiani o laici che fossero. Lo Stato moderno, infatti, nasce all'insegna dell'uguaglianza in base alla comune cittadinanza. Questo riconoscimento ha influito sulla mentalità corrente degli uomini sempre meno disposti a riconoscere il merito degli altri e ad approvare il succes¬so come conseguenza del merito.
In questo modo il sentimento di uguaglianza, un sen¬timento nobile e ormai condiviso in tutte le società civi¬li, paradossalmente ha moltiplicato le ragioni dell'invi¬dia, fino a intaccare e a modificare il concetto di giusti¬zia. Il marxismo, che da questo punto di vista è l'estre¬ma radicalizzazione del cristianesimo, ritiene infatti che la semplice uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è in grado di garantire una giustizia solamente formale, perché quella sostanziale può essere assicurata solo dall'uguaglianza economica, in modo che tutti pos¬sano disporre delle stesse opportunità.
A questo proposito assume particolare interesse la tesi di Helmut Schoeck secondo la quale l'invidia è uno tra i più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitaliste. Nelle prime, infatti, si utilizza l'invidia proletaria in funzione rivoluzionaria per instau¬rare un'uguaglianza in cui si svuotino le ragioni stesse dell'invidia; nelle seconde si "produce" e si "vende" invi¬dia per stimolare l'emulazione e quindi lo sviluppo del mercato. Inoltre non sfugge a nessuno che nelle stesse so¬cietà capitaliste molte politiche assistenziali e certe scelte economiche e finanziarie degli Stati moderni possono es¬sere lette come modalità sofisticate per calmare l'invidia che minaccia sempre di tradursi in rivoluzione possibile, anche se abbellita da nobili ideali per coprire profondi ri¬sentimenti.
Infatti "in una società in cui l'inuguaglianza è assunta come un dato naturale e intrasformabile si sarà indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell'altro e per ciò stesso sarà più facile tollerare il proprio limite", mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta in naturale, se non addirittura il prodotto dell'iniquità so¬ciale, l'invidia può rivestire i panni della virtù e trasfor¬marsi in istanza di giustizia, per cui diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortu¬na. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esi¬birle; in questo caso sarà portato ad accusare chi gliele chiede di essere mosso dall'invidia.
Questo può essere, ma perché mai un "vizio privato", come dicevano gli illuministi, non può trasformarsi in una "pubblica virtù"? Se l'invidia, invece di attorcigliarsi e incanaglirsi nel risentimento, diventa, nella comples¬sità del gioco sociale, una legittima resistenza all'arbi¬trio, ben venga l'invidia, dal momento che dalla società degli uguali di fronte alla legge non si può recedere.
Da queste considerazioni emerge che "1'invidia è quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, perché è la società che decide del valore degli individui", e nelle società capita¬liste il criterio di decisione è il successo. Nell'assunzione di questo criterio di riconoscimento cade, chiara come la luce, la differenza tra destra e sinistra. "Ogni indivi¬duo, infatti, potrebbe accettare il proprio limite" se poi, a riconoscimento avvenuto, la società non facesse cade¬re quest'individuo nell'irrilevanza.
In questo contesto, scrive Salvatore Natoli: "1'invidia è impotenza", o perché fallisce la meta troppo elevata per le proprie forze naturali, o perché la propria poten¬za è legata e impedita rispetto a una meta che sarebbe anche raggiungibile. Se ne deduce, prosegue Natoli, che: "l'impotenza ha un carattere costitutivamente rela¬zionale", nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale. E quando la società fa mancare il riconoscimento, magari per ragioni arbitrarie, non può evitare che l'impotenza si perverta in invidia, aumentando al suo interno la cir¬colazione di questo sentimento che impoverisce il mon¬do senza riuscire a valorizzare chi lo prova.
Questa è la ragione per cui l'invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai tra¬sparire, perché altrimenti darebbe a vedere la sua impo¬tenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza. Per cui l'in¬vidia, più che un vizio capitale, è un indotto sociale, e, fatta salva l'istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento "inutile" perché non approda al recupero della valorizzazione di sé, "doloroso" perché rabbuia e impoverisce il mondo, e per giunta è un sentimento che bisogna tenere "nascosto", senza quindi neppure il conforto che può venire dalla comunicazione.
U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2007 Feltrinelli
Scritto da Giulia il settembre 27 2011 19:17:59