Il rapporto deformato con il cibo
Testo tratto da Enzo Bianchi, Una lotta per la vita, san Paolo, Milano 2011, pp. 103-117.
Questa passione, designata da Eva¬grio con il termine gastrimarghía (lett.: «follia, delirio del ventre») e conosciuta dalla tradizione occidentale come «gola», è significativamente la prima della lista:
per i padri «l'ingordigia è madre di tutte le passioni»48. Possiamo chiederci: perché dedicare tanta attenzione all'atto del nutrirsi, che costituisce una necessità vitale dell'uomo? La riflessione della spiritualità cristiana non dimentica che il peccato di Adamo ed Eva nel loro en¬trare in relazione con un alimento, il frutto dell'albero, è avvenuto proprio nell'atto di mangiare (cf. Gen 3,6). E il loro non è che il primo di una lunga serie di pec¬cati di voracità attestati dalla Bibbia: Noè sperimenta gli effetti inebrianti del vino, fino a mostrare la nudità ai figli (cf. Gen 9,21); Lot si ubriaca e ha rapporti ince¬stuosi con le figlie (cf. Gen 19,30-38); Esaù cede la pri¬mogenitura a Giacobbe per un piatto di lenticchie (cf. Gen 25,29-34); il popolo di Israele nel deserto pecca per la voracità di cibo, desiderando tornare alla schiavitù d'Egitto pur di mangiare cibo in abbondanza e va¬rietà (cf. Es 16,2-3; Nm 11,4-6)…
Se dalla Scrittura passiamo alla nostra esperienza, possiamo dire che ogni patologia umana si innesta sul livello del bisogno primario per eccellenza, quello del nutrimento, della fruizione e del piacere: occorre man¬giare per vivere, e occorre anche godere. Va però su¬bito chiarito che l'ingordigia non indica il piacere nel mangiare - scrive del resto Cassiano: «Il piacere che si posa naturalmente sul mangiare non è un male,... non si può dire che sia cattivo»49 - né tanto meno la capa¬cità di apprezzare e gustare la buona qualità dei cibi; queste attitudini non vanno condannate, ma sono anzi da esaltare in quanto espressione di gioia e di rendi¬mento di grazie per la bontà delle creature donate da Dio e trasformate da quella raffinata forma culturale e da quel linguaggio dell'amore che è la cucina. No, l'in¬gordigia è un atteggiamento di smoderatezza e di vora¬cità in rapporto al cibo, è una brama sfrenata e com¬pulsiva: insomma, una «brama di cibo non ordinata»so, un'autosoddisfazione dell'io solitario.
Certamente l'ingordigia si riferisce alla quantità del cibo, ma in realtà gli eccessi non sono solo quantitativi. I padri del deserto associano infatti alla gastrimarghía anche la laimarghía, la «follia della gola», ossia la golosità, l'eccesso nella ricerca della qualità del cibo. Così scrive Doroteo di Gaza:
A volte si è tentati sulla qualità del cibo: ad esempio c'è chi non mangia molto, ma brama cibi raffinatissimi. Co¬stui quando mangia un cibo che gli dà piacere, è talmente dominato dal piacere, che lo tiene a lungo in bocca, ma¬sticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. Questa è golosità, cioè lai¬marghía. Un altro invece è tentato sulla quantità del cibo: non cerca cibi buoni ... desidera solo mangiare; di qual¬siasi cibo non desidera altro che riempirsi il ventre. Que¬sta è voracità, cioè gastrimarghía51.
Accanto a questi eccessi vi , vi è anche quello che consiste nel non rispettare i tempi del mangiare,che riguarda cioè il modo di mangiare. Si tratta dunque di vari comportamenti smodati, così ben sintetizzati da Gregorio magno:
La voracità ci tenta in cinque modi: a volte anticipa il tempo del bisogno; altre volte non anticipa il tempo, ma chiede cibi più raffinati; altre volte pretende che i cibi siano sempre preparati con cura meticolosa; altre volte si adatta alla qualità e al tempo dell’alimentazione, ma eccede nella quantità Alcune volte poi non desidera affatto cibi raffinati, ma pecca più gravemente per eccesso di voracità52.
Si, mangiare è una funzione essenziale, ma rischia sempre di ridursi ad un’animalità irriflessa, non ragionata. Ora,s e è vero che noi oggi diamo poca importanza all’ingordigia, al punto che non la consideriamo più come un peccato, è altrettanto vero che, mai come oggi, sperimentiamo quanto essa sia dannosa per la nostra salute. E’ paradossale eppure reale: siamo maggiormente disposti ad accettare disagi provenienti dagli abusi nel nostro rapporto col cibo che non quelli causati da un suo retto uso, cioè le moderate rinunce e il giusto rapporto con il cibo che ci consentirebbero di intrattenere un rapporto equilibrato con il nostro corpo. Come non ricordare che la nostra società assolutamente mal disposta a comprendere queste «lotte spirituali», in realtà reintroduce queste discipline raccomandate dalla tradizione cristiana cioè esercizi, digiuni, diete -, per ragioni di salute e di estetica53? Nell’attuale contesto culturale della società dei consumi, dove il cibo non manca mai, la gastrimaghia si declina appunto come un vizio di consumo. Si tende a d ingurgitare cibo alla stregua di carburante in grado di assicurare il funzionamento della nostra macchina- corpo, e lo si fa evitando di riconoscere come patologico il nostro modi di mangiare, giustificato sbrigativamente con la mancanza di tempo o ritmi produttivi. Qual è il risultato? Quello già espresso con grande sapienza in alcuni salmi: «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21), «gli uomini sono ottusi nella loro sufficienza» (Sal 17,10; lett.: «sono chiusi nel loro ,grasso»). L'ingordigia ci rende pesanti in senso pro¬prio e in senso figurato, causa insonnia e a volte pro¬voca addirittura malesseri (cf. Pr 23,29-35; Sir 31,20¬25), ma soprattutto provoca un intontimento, un'ebetu¬dine dell'intelligenza, un torpore che spegne la vigi¬lanza. Significativamente Gesù ha avvertito: «Vigilate, in modo che i vostri cuori non si appesantiscano in ubriachezze» (cf. Lc 21,34). D'altra parte essa può anche provocare sfrenatezza, eccitazione, può togliere i freni inibitori alla lingua, ai gesti, allo stare in mezzo agli altri: l'orgia è sempre il risultato di un atteggia¬mento smodato nel mangiare e nel bere, è il culto che, secondo Paolo, è celebrato da quelli che «hanno il ven¬tre come proprio dio» (cf. Fil 3,19).
Grazie all'apporto delle scienze umane noi oggi siamo in grado di rileggere l'intuizione patristica che ravvisa nell'ingordigia la «porta di tutte le passioni»54. La voracità appare infatti come la porta dei vizi: non è forse vero che dall'eccesso di assunzione di vino e cibo nascono il multiloquio, la scurrilità, le beffe, l'allegria sconcia, la sfrenatezza sessuale, la perdita di vigilanza, l'intontimento spirituale, e a volte persino l'aggressi¬vità, la violenza? Non è forse a tavola, luogo destinato alla condivisione, allo scambio della parola, all'effu¬sione dell'affetto, che un eccesso di cibo e bevande pro¬voca liti e atteggiamenti violenti? Sì, la tavola è luogo di epifania anche a causa di ciò e di come si beve e si mangia: epifania della comunione, dell'amore, oppure epifania dell'aggressività...
L'atto del mangiare, inoltre, non ha a che fare sem¬plicemente con il nutrimento fisico, ma più in profondità appartiene al registro del desiderio, riveste im¬portanti connotazioni affettive e simboliche: il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo, come testimonia l'esperienza originaria del neonato che, perduto il paradiso del grembo materno, cerca il piacere con la sua bocca. Così comincia a rela¬zionarsi con il mondo esterno succhiando il seno ma¬terno per cibarsi, e poi succhiando tutto ciò che può portare alla bocca. Il neonato cerca il seno materno con desiderio prepotente e quasi insaziabile, e, animato da questa pulsione, non sa distinguere tra la matrice e la persona della madre: vorrebbe divorare questa matrice, fonte e termine di ogni suo desiderio e bisogno, vor¬rebbe averla tutta per sé. E noi oggi siamo avvertiti sul fatto che questa esperienza iniziale di desiderio e di co¬noscenza, così come eventuali esperienze traumatiche vissute dal bambino nelle sue relazioni con la madre, soprattutto nella fase dell'allattamento e dello svezza¬mento, rischiano di causare fissazioni o regressioni a comportamenti infantili, allo «stadio orale».
Proprio quelle frustrazioni orali che segnano in pro¬fondità il nostro inconscio possono generare fami divoranti o altrettanto divoranti astensioni dal cibo. È nel rapporto con il cibo, infatti, che si cercano soluzioni al proprio malessere, con conseguenze mortifere: bisogno di ingurgitare grandi quantità di cibo o di bevande, fino alla bulimia, per soddisfare un'irrefrenabile pulsione orale; oppure, al contrario, rifiuto di ingerire il nutri¬mento necessario, fino all'anoressia. Prima di essere indice di un malessere spirituale, l'ingordigia si mani¬festa pertanto come una furiosa perversione del desi¬derio, che può assumere il volto della psicosi e della nevrosi: che cosa sono infatti bulimia e anoressia se non indici di turbamenti affettivi che si ripercuotono sull'alimentazione? E così il cibo finisce per sostituirsi al¬l'amore, e il rapporto con esso diventa un mezzo per occultare la sofferenza: l'amore è irraggiungibile, men¬tre il cibo è a portata di mano... Con la bocca noi man¬giamo, parliamo e anche baciamo: le sfere della comu¬nicazione, dell'affettività, della sessualità sono impli¬cate nell'oralità e sono simbolicamente presenti nel¬l'atto dell'assunzione del cibo. Tuttavia nella voracità avviene lo stravolgimento del mezzo infine: il cibo non
è più inteso come uno strumento per vivere, per condi¬videre e per festeggiare, ma come una sorta di fine in se stesso, come piacere teso alla propria soddisfazione fino all'eccesso! Ecco perché il percorso di crescita umana e spirituale richiede necessariamente la capacità di ordinare tutti i nostri appetiti, a partire da quello fon¬damentale del cibo. Non si dimentichi inoltre che sta nello spazio dell'ingordigia anche il cibo che con vo¬racità acquistiamo oltre i nostri reali bisogni e che poi buttiamo via...
È innegabile che la lotta contro l'ingordigia com¬porta un'enorme fatica: basti pensare all'attuale, massiccio ricorso alle diete o ai farmaci per dimagrire, che si dimostrano quasi sempre inutili e, di conseguenza, accrescono la frustrazione di chi vi si affida. Eppure è proprio a partire dal nostro rapporto con il cibo che si decide la nostra libertà, è questo il terreno privilegiato per conoscere da cosa siamo abitati. Avverte con grande lucidità Cassiano: «Dobbiamo innanzitutto dare prova della nostra condizione di uomini liberi attraverso la sottomissione del nostro corpo, perché "ciascuno è schiavo di ciò che l'ha vinto" (2Pt 2,19)»55, e noi co¬nosciamo per esperienza la verità di queste parole: chi non sa praticare una rinuncia elementare a una piccola quantità di cibo, non potrà mai disciplinare i bisogni prepotenti che insorgono nel proprio cuore, assumendo il volto di bestie fameliche. Va intesa in quest'ottica la grande attenzione mostrata dai padri monastici nei con¬fronti del rapporto con l'alimentazione, la loro insi¬stenza sulla misura del cibo da assumere56: non si tratta di norme legalistiche, ma di un esercizio di disciplina della propria oralità, in vista di un'ascesi del bisogno e di un'educazione del desiderio.
L'ingordigia è causata da un desiderio smodato e quindi va combattuta - lo ripeto - attraverso l'integrazione del desiderio e la rinuncia ai suoi eccessi. L'uomo di oggi deve reimparare ad ascoltare il proprio corpo e non solo il richiamo del piacere, che tende per sua na¬tura alla dismisura, all'eccesso. Raccomanda Cassiano: «Si prenda il cibo secondo il bisogno della salute e non secondo il desiderio»57. Non a caso nella tradizione ebraica e cristiana alla tavola, al mangiare è stretta¬mente connessa la preghiera: innanzitutto quale presa di distanza dall'aggressività e riconoscimento che il cibo è dono di Dio e non conquista violenta; quindi quale ringraziamento perché Dio ci concede il pane quotidiano; infine quale memoria della comunione, della condivisione che il cibo deve avere in quanto dono destinato a tutti gli uomini, non ad alcuni o a pochi!
Si comprende in questa scia anche lo strumento per eccellenza proposto dalla tradizione cristiana per lot¬tare contro la gastrimarghía: il digiuno moderato e in¬telligente, inscritto nel ritmo dei giorni della settimana o nel corso dell'anno, in particolare durante il tempo della quaresima. La pratica del digiuno non significa disprezzo del cibo, né va intesa come una penitenza meritoria; «vano è il digiuno senza carità, ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli»58. Al contrario, il digiuno è una forma di rispetto originata da una sana presa di di¬stanza dal cibo stesso, è una disciplina del desiderio per discernere che cosa, oltre il pane, è veramente neces¬sario per vivere. Ecco perché digiunare con coscienza di causa - e sempre nel segreto, senza ostentazione (cf. Mt 6,6) - può condurre a porsi le domande essenziali: Perché mangio? Cosa mangio? Come mangio? E inoltre: quali sono i miei desideri più profondi? Astenersi consapevolmente dal cibo può anche indurre a chiedersi se nelle relazioni con gli altri il cibo è strumento di con¬divisione e di incontro, oppure è una via per soddisfare il proprio piacere contro e senza di loro.
E in tal modo potremo giungere a comprendere che imparare a mangiare significa imparare a farlo insieme agli altri: la tavola è infatti il luogo per eccellenza in cui gli uomini da sempre stringono amicizia e creano cultura, a patto che il cibo non sia semplicemente con¬sumato, ma sia assunto umanamente e crei comunione tra i commensali. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano parole per nutrire le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. È il man¬giare insieme che ha implicato la creazione del lin¬guaggio; e siccome questo atto è legato all'oralità e al desiderio, esso investe la sfera affettiva ed emozionale dell'uomo: è dunque un simbolo antropologico deci¬sivo, che coglie l'uomo nella sua profondità e lo defi¬nisce nel suo legame con la terra, con il lavoro, con la famiglia, con la societ59. Mangiando, noi assumiamo il mondo in noi e lo trasformiamo: noi siamo ciò che mangiamo! Certo, occorre avere chiara consapevolezza del nostro consumare il cibo: come avvertiva Jean An¬thelme Brillat-Savarin, «gli animali si nutrono, l'uomo mangia, solo l'uomo sapiente sa mangiare»60.
Non è infine casuale che l'eucaristia, fonte e culmine della vita della comunità cristiana, sia stata collocata da Gesù all'interno di una cena e accompagnata dalle pa¬role: «Prendete e mangiate ... prendete e bevete» (cf. Mc 14,22-25 e par.). Non è facile apprendere l'arte umana del mangiare e del bere; ma è proprio a partire da tale consapevolezza che Gesù ha scelto queste due realtà come cifra della nuova alleanza. L'eucaristia dovrebbe dunque insegnarci anche questo: ci cibiamo del corpo e del sangue del Signore immettendoci in quella logica di dono e di comunione che sconfessa ogni voracità. E tutto avviene nel rendimento di grazie, nella confessione che ogni cosa proviene da Dio: il cibo è buono, «ogni ali¬mento è puro» (cf. Mc 7,19), ma occorre nutrirsene rin¬graziando Dio e condividendolo con chi è a tavola con noi. Davvero il rapporto con il cibo è l'ambito elemen¬tare in cui ogni cristiano è chiamato alla lotta essenziale, quella che fa da filo conduttore a tutto il nostro percorso:
passare dalla logica del consumo a quella della comu¬nione, in modo che mangiare e bere siano azioni che ri¬conoscono la gloria di Dio (cf. 1Cor 10,31)61. Non si di¬mentichi: l'eucaristia possiede il più alto ed efficace ma¬gistero nel nostro rapporto con il cibo!
Nel rapporto con il cibo, sempre rivelativo del rap¬porto che uno ha con se stesso e con gli altri, occorrono dunque: sobrietà quale giusta misura; temperanza quale limite intelligente; riconoscenza, perché i7 cibo è sem¬pre qualcosa per cui occorre dire grazie ad altri, all'al¬tro; giustizia, perché il cibo è sempre da condividere con chi non ne ha.
48 Basilio di Cesarea, Omelie sul digiuno 1.
49 Cassiano, Conferenze XXI,16.
50Tommaso d'Aquino, Somma teologica 11-11, q. 148, a. 1.
51 Doroteo di Gaza, Insegnamenti XV,161.
52 Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXX, 60.
53 U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, p.50.
54 Giovanni Climaco, La Scala. XIV,32.
55 Cassiano, Istituzioni cenobitiche V,13.
56 La regola di Benedetto dedica un intero capitolo, il XXXIX, alla «mi¬sura del cibo».
57 Cassiano, Istituzioni cenobitiche V,7.
58 Detti dei padri del deserto, Collezione alfabetica, Iperechio 4.
59L'essere umano è l'unico animale che cuoce il cibo e lo consuma in¬sieme ai propri simili e non contro o a scapito di essi.
60 J. A. Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto, BIT, Milano 1996, p. 23.
61 A questo proposito rimando anche al bellissimo film Il pranzo di Ba¬bette (regia di Gabriel Axel, Danimarca 1987), ispirato all'omonimo rac¬conto di Karen Blixen.
Scritto da Giulia il ottobre
Testo tratto da Enzo Bianchi, Una lotta per la vita, san Paolo, Milano 2011, pp. 103-117.
Questa passione, designata da Eva¬grio con il termine gastrimarghía (lett.: «follia, delirio del ventre») e conosciuta dalla tradizione occidentale come «gola», è significativamente la prima della lista:
per i padri «l'ingordigia è madre di tutte le passioni»48. Possiamo chiederci: perché dedicare tanta attenzione all'atto del nutrirsi, che costituisce una necessità vitale dell'uomo? La riflessione della spiritualità cristiana non dimentica che il peccato di Adamo ed Eva nel loro en¬trare in relazione con un alimento, il frutto dell'albero, è avvenuto proprio nell'atto di mangiare (cf. Gen 3,6). E il loro non è che il primo di una lunga serie di pec¬cati di voracità attestati dalla Bibbia: Noè sperimenta gli effetti inebrianti del vino, fino a mostrare la nudità ai figli (cf. Gen 9,21); Lot si ubriaca e ha rapporti ince¬stuosi con le figlie (cf. Gen 19,30-38); Esaù cede la pri¬mogenitura a Giacobbe per un piatto di lenticchie (cf. Gen 25,29-34); il popolo di Israele nel deserto pecca per la voracità di cibo, desiderando tornare alla schiavitù d'Egitto pur di mangiare cibo in abbondanza e va¬rietà (cf. Es 16,2-3; Nm 11,4-6)…
Se dalla Scrittura passiamo alla nostra esperienza, possiamo dire che ogni patologia umana si innesta sul livello del bisogno primario per eccellenza, quello del nutrimento, della fruizione e del piacere: occorre man¬giare per vivere, e occorre anche godere. Va però su¬bito chiarito che l'ingordigia non indica il piacere nel mangiare - scrive del resto Cassiano: «Il piacere che si posa naturalmente sul mangiare non è un male,... non si può dire che sia cattivo»49 - né tanto meno la capa¬cità di apprezzare e gustare la buona qualità dei cibi; queste attitudini non vanno condannate, ma sono anzi da esaltare in quanto espressione di gioia e di rendi¬mento di grazie per la bontà delle creature donate da Dio e trasformate da quella raffinata forma culturale e da quel linguaggio dell'amore che è la cucina. No, l'in¬gordigia è un atteggiamento di smoderatezza e di vora¬cità in rapporto al cibo, è una brama sfrenata e com¬pulsiva: insomma, una «brama di cibo non ordinata»so, un'autosoddisfazione dell'io solitario.
Certamente l'ingordigia si riferisce alla quantità del cibo, ma in realtà gli eccessi non sono solo quantitativi. I padri del deserto associano infatti alla gastrimarghía anche la laimarghía, la «follia della gola», ossia la golosità, l'eccesso nella ricerca della qualità del cibo. Così scrive Doroteo di Gaza:
A volte si è tentati sulla qualità del cibo: ad esempio c'è chi non mangia molto, ma brama cibi raffinatissimi. Co¬stui quando mangia un cibo che gli dà piacere, è talmente dominato dal piacere, che lo tiene a lungo in bocca, ma¬sticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. Questa è golosità, cioè lai¬marghía. Un altro invece è tentato sulla quantità del cibo: non cerca cibi buoni ... desidera solo mangiare; di qual¬siasi cibo non desidera altro che riempirsi il ventre. Que¬sta è voracità, cioè gastrimarghía51.
Accanto a questi eccessi vi , vi è anche quello che consiste nel non rispettare i tempi del mangiare,che riguarda cioè il modo di mangiare. Si tratta dunque di vari comportamenti smodati, così ben sintetizzati da Gregorio magno:
La voracità ci tenta in cinque modi: a volte anticipa il tempo del bisogno; altre volte non anticipa il tempo, ma chiede cibi più raffinati; altre volte pretende che i cibi siano sempre preparati con cura meticolosa; altre volte si adatta alla qualità e al tempo dell’alimentazione, ma eccede nella quantità Alcune volte poi non desidera affatto cibi raffinati, ma pecca più gravemente per eccesso di voracità52.
Si, mangiare è una funzione essenziale, ma rischia sempre di ridursi ad un’animalità irriflessa, non ragionata. Ora,s e è vero che noi oggi diamo poca importanza all’ingordigia, al punto che non la consideriamo più come un peccato, è altrettanto vero che, mai come oggi, sperimentiamo quanto essa sia dannosa per la nostra salute. E’ paradossale eppure reale: siamo maggiormente disposti ad accettare disagi provenienti dagli abusi nel nostro rapporto col cibo che non quelli causati da un suo retto uso, cioè le moderate rinunce e il giusto rapporto con il cibo che ci consentirebbero di intrattenere un rapporto equilibrato con il nostro corpo. Come non ricordare che la nostra società assolutamente mal disposta a comprendere queste «lotte spirituali», in realtà reintroduce queste discipline raccomandate dalla tradizione cristiana cioè esercizi, digiuni, diete -, per ragioni di salute e di estetica53? Nell’attuale contesto culturale della società dei consumi, dove il cibo non manca mai, la gastrimaghia si declina appunto come un vizio di consumo. Si tende a d ingurgitare cibo alla stregua di carburante in grado di assicurare il funzionamento della nostra macchina- corpo, e lo si fa evitando di riconoscere come patologico il nostro modi di mangiare, giustificato sbrigativamente con la mancanza di tempo o ritmi produttivi. Qual è il risultato? Quello già espresso con grande sapienza in alcuni salmi: «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21), «gli uomini sono ottusi nella loro sufficienza» (Sal 17,10; lett.: «sono chiusi nel loro ,grasso»). L'ingordigia ci rende pesanti in senso pro¬prio e in senso figurato, causa insonnia e a volte pro¬voca addirittura malesseri (cf. Pr 23,29-35; Sir 31,20¬25), ma soprattutto provoca un intontimento, un'ebetu¬dine dell'intelligenza, un torpore che spegne la vigi¬lanza. Significativamente Gesù ha avvertito: «Vigilate, in modo che i vostri cuori non si appesantiscano in ubriachezze» (cf. Lc 21,34). D'altra parte essa può anche provocare sfrenatezza, eccitazione, può togliere i freni inibitori alla lingua, ai gesti, allo stare in mezzo agli altri: l'orgia è sempre il risultato di un atteggia¬mento smodato nel mangiare e nel bere, è il culto che, secondo Paolo, è celebrato da quelli che «hanno il ven¬tre come proprio dio» (cf. Fil 3,19).
Grazie all'apporto delle scienze umane noi oggi siamo in grado di rileggere l'intuizione patristica che ravvisa nell'ingordigia la «porta di tutte le passioni»54. La voracità appare infatti come la porta dei vizi: non è forse vero che dall'eccesso di assunzione di vino e cibo nascono il multiloquio, la scurrilità, le beffe, l'allegria sconcia, la sfrenatezza sessuale, la perdita di vigilanza, l'intontimento spirituale, e a volte persino l'aggressi¬vità, la violenza? Non è forse a tavola, luogo destinato alla condivisione, allo scambio della parola, all'effu¬sione dell'affetto, che un eccesso di cibo e bevande pro¬voca liti e atteggiamenti violenti? Sì, la tavola è luogo di epifania anche a causa di ciò e di come si beve e si mangia: epifania della comunione, dell'amore, oppure epifania dell'aggressività...
L'atto del mangiare, inoltre, non ha a che fare sem¬plicemente con il nutrimento fisico, ma più in profondità appartiene al registro del desiderio, riveste im¬portanti connotazioni affettive e simboliche: il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo, come testimonia l'esperienza originaria del neonato che, perduto il paradiso del grembo materno, cerca il piacere con la sua bocca. Così comincia a rela¬zionarsi con il mondo esterno succhiando il seno ma¬terno per cibarsi, e poi succhiando tutto ciò che può portare alla bocca. Il neonato cerca il seno materno con desiderio prepotente e quasi insaziabile, e, animato da questa pulsione, non sa distinguere tra la matrice e la persona della madre: vorrebbe divorare questa matrice, fonte e termine di ogni suo desiderio e bisogno, vor¬rebbe averla tutta per sé. E noi oggi siamo avvertiti sul fatto che questa esperienza iniziale di desiderio e di co¬noscenza, così come eventuali esperienze traumatiche vissute dal bambino nelle sue relazioni con la madre, soprattutto nella fase dell'allattamento e dello svezza¬mento, rischiano di causare fissazioni o regressioni a comportamenti infantili, allo «stadio orale».
Proprio quelle frustrazioni orali che segnano in pro¬fondità il nostro inconscio possono generare fami divoranti o altrettanto divoranti astensioni dal cibo. È nel rapporto con il cibo, infatti, che si cercano soluzioni al proprio malessere, con conseguenze mortifere: bisogno di ingurgitare grandi quantità di cibo o di bevande, fino alla bulimia, per soddisfare un'irrefrenabile pulsione orale; oppure, al contrario, rifiuto di ingerire il nutri¬mento necessario, fino all'anoressia. Prima di essere indice di un malessere spirituale, l'ingordigia si mani¬festa pertanto come una furiosa perversione del desi¬derio, che può assumere il volto della psicosi e della nevrosi: che cosa sono infatti bulimia e anoressia se non indici di turbamenti affettivi che si ripercuotono sull'alimentazione? E così il cibo finisce per sostituirsi al¬l'amore, e il rapporto con esso diventa un mezzo per occultare la sofferenza: l'amore è irraggiungibile, men¬tre il cibo è a portata di mano... Con la bocca noi man¬giamo, parliamo e anche baciamo: le sfere della comu¬nicazione, dell'affettività, della sessualità sono impli¬cate nell'oralità e sono simbolicamente presenti nel¬l'atto dell'assunzione del cibo. Tuttavia nella voracità avviene lo stravolgimento del mezzo infine: il cibo non
è più inteso come uno strumento per vivere, per condi¬videre e per festeggiare, ma come una sorta di fine in se stesso, come piacere teso alla propria soddisfazione fino all'eccesso! Ecco perché il percorso di crescita umana e spirituale richiede necessariamente la capacità di ordinare tutti i nostri appetiti, a partire da quello fon¬damentale del cibo. Non si dimentichi inoltre che sta nello spazio dell'ingordigia anche il cibo che con vo¬racità acquistiamo oltre i nostri reali bisogni e che poi buttiamo via...
È innegabile che la lotta contro l'ingordigia com¬porta un'enorme fatica: basti pensare all'attuale, massiccio ricorso alle diete o ai farmaci per dimagrire, che si dimostrano quasi sempre inutili e, di conseguenza, accrescono la frustrazione di chi vi si affida. Eppure è proprio a partire dal nostro rapporto con il cibo che si decide la nostra libertà, è questo il terreno privilegiato per conoscere da cosa siamo abitati. Avverte con grande lucidità Cassiano: «Dobbiamo innanzitutto dare prova della nostra condizione di uomini liberi attraverso la sottomissione del nostro corpo, perché "ciascuno è schiavo di ciò che l'ha vinto" (2Pt 2,19)»55, e noi co¬nosciamo per esperienza la verità di queste parole: chi non sa praticare una rinuncia elementare a una piccola quantità di cibo, non potrà mai disciplinare i bisogni prepotenti che insorgono nel proprio cuore, assumendo il volto di bestie fameliche. Va intesa in quest'ottica la grande attenzione mostrata dai padri monastici nei con¬fronti del rapporto con l'alimentazione, la loro insi¬stenza sulla misura del cibo da assumere56: non si tratta di norme legalistiche, ma di un esercizio di disciplina della propria oralità, in vista di un'ascesi del bisogno e di un'educazione del desiderio.
L'ingordigia è causata da un desiderio smodato e quindi va combattuta - lo ripeto - attraverso l'integrazione del desiderio e la rinuncia ai suoi eccessi. L'uomo di oggi deve reimparare ad ascoltare il proprio corpo e non solo il richiamo del piacere, che tende per sua na¬tura alla dismisura, all'eccesso. Raccomanda Cassiano: «Si prenda il cibo secondo il bisogno della salute e non secondo il desiderio»57. Non a caso nella tradizione ebraica e cristiana alla tavola, al mangiare è stretta¬mente connessa la preghiera: innanzitutto quale presa di distanza dall'aggressività e riconoscimento che il cibo è dono di Dio e non conquista violenta; quindi quale ringraziamento perché Dio ci concede il pane quotidiano; infine quale memoria della comunione, della condivisione che il cibo deve avere in quanto dono destinato a tutti gli uomini, non ad alcuni o a pochi!
Si comprende in questa scia anche lo strumento per eccellenza proposto dalla tradizione cristiana per lot¬tare contro la gastrimarghía: il digiuno moderato e in¬telligente, inscritto nel ritmo dei giorni della settimana o nel corso dell'anno, in particolare durante il tempo della quaresima. La pratica del digiuno non significa disprezzo del cibo, né va intesa come una penitenza meritoria; «vano è il digiuno senza carità, ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli»58. Al contrario, il digiuno è una forma di rispetto originata da una sana presa di di¬stanza dal cibo stesso, è una disciplina del desiderio per discernere che cosa, oltre il pane, è veramente neces¬sario per vivere. Ecco perché digiunare con coscienza di causa - e sempre nel segreto, senza ostentazione (cf. Mt 6,6) - può condurre a porsi le domande essenziali: Perché mangio? Cosa mangio? Come mangio? E inoltre: quali sono i miei desideri più profondi? Astenersi consapevolmente dal cibo può anche indurre a chiedersi se nelle relazioni con gli altri il cibo è strumento di con¬divisione e di incontro, oppure è una via per soddisfare il proprio piacere contro e senza di loro.
E in tal modo potremo giungere a comprendere che imparare a mangiare significa imparare a farlo insieme agli altri: la tavola è infatti il luogo per eccellenza in cui gli uomini da sempre stringono amicizia e creano cultura, a patto che il cibo non sia semplicemente con¬sumato, ma sia assunto umanamente e crei comunione tra i commensali. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano parole per nutrire le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. È il man¬giare insieme che ha implicato la creazione del lin¬guaggio; e siccome questo atto è legato all'oralità e al desiderio, esso investe la sfera affettiva ed emozionale dell'uomo: è dunque un simbolo antropologico deci¬sivo, che coglie l'uomo nella sua profondità e lo defi¬nisce nel suo legame con la terra, con il lavoro, con la famiglia, con la societ59. Mangiando, noi assumiamo il mondo in noi e lo trasformiamo: noi siamo ciò che mangiamo! Certo, occorre avere chiara consapevolezza del nostro consumare il cibo: come avvertiva Jean An¬thelme Brillat-Savarin, «gli animali si nutrono, l'uomo mangia, solo l'uomo sapiente sa mangiare»60.
Non è infine casuale che l'eucaristia, fonte e culmine della vita della comunità cristiana, sia stata collocata da Gesù all'interno di una cena e accompagnata dalle pa¬role: «Prendete e mangiate ... prendete e bevete» (cf. Mc 14,22-25 e par.). Non è facile apprendere l'arte umana del mangiare e del bere; ma è proprio a partire da tale consapevolezza che Gesù ha scelto queste due realtà come cifra della nuova alleanza. L'eucaristia dovrebbe dunque insegnarci anche questo: ci cibiamo del corpo e del sangue del Signore immettendoci in quella logica di dono e di comunione che sconfessa ogni voracità. E tutto avviene nel rendimento di grazie, nella confessione che ogni cosa proviene da Dio: il cibo è buono, «ogni ali¬mento è puro» (cf. Mc 7,19), ma occorre nutrirsene rin¬graziando Dio e condividendolo con chi è a tavola con noi. Davvero il rapporto con il cibo è l'ambito elemen¬tare in cui ogni cristiano è chiamato alla lotta essenziale, quella che fa da filo conduttore a tutto il nostro percorso:
passare dalla logica del consumo a quella della comu¬nione, in modo che mangiare e bere siano azioni che ri¬conoscono la gloria di Dio (cf. 1Cor 10,31)61. Non si di¬mentichi: l'eucaristia possiede il più alto ed efficace ma¬gistero nel nostro rapporto con il cibo!
Nel rapporto con il cibo, sempre rivelativo del rap¬porto che uno ha con se stesso e con gli altri, occorrono dunque: sobrietà quale giusta misura; temperanza quale limite intelligente; riconoscenza, perché i7 cibo è sem¬pre qualcosa per cui occorre dire grazie ad altri, all'al¬tro; giustizia, perché il cibo è sempre da condividere con chi non ne ha.
48 Basilio di Cesarea, Omelie sul digiuno 1.
49 Cassiano, Conferenze XXI,16.
50Tommaso d'Aquino, Somma teologica 11-11, q. 148, a. 1.
51 Doroteo di Gaza, Insegnamenti XV,161.
52 Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXX, 60.
53 U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, p.50.
54 Giovanni Climaco, La Scala. XIV,32.
55 Cassiano, Istituzioni cenobitiche V,13.
56 La regola di Benedetto dedica un intero capitolo, il XXXIX, alla «mi¬sura del cibo».
57 Cassiano, Istituzioni cenobitiche V,7.
58 Detti dei padri del deserto, Collezione alfabetica, Iperechio 4.
59L'essere umano è l'unico animale che cuoce il cibo e lo consuma in¬sieme ai propri simili e non contro o a scapito di essi.
60 J. A. Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto, BIT, Milano 1996, p. 23.
61 A questo proposito rimando anche al bellissimo film Il pranzo di Ba¬bette (regia di Gabriel Axel, Danimarca 1987), ispirato all'omonimo rac¬conto di Karen Blixen.
Scritto da Giulia il ottobre