S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli.
pp. 11-13.
L’accidia non equivale al semplice far niente. Essa, piuttosto, corrisponde all'incapacità di prendere sul serio le cose, di sapere attendere a quel che si deve fare e di portare a compimento le opere. L'accidia è dunque abulia, indolenza, è una sorta di torpore che induce alla distrazione.
Più che dall'inazione, l'accidia è caratterizzata dall'assenza di concentrazione. Accidioso, dunque, è colui che non sa essere perseverante, che è soprattutto svagato. Evagrio Pontico, personalità eminente del monachesimo orientale antico, dava dell'accidioso questo ritratto: '1'occhio dell'acedioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite... Quando legge, l'acedioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po', ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo". Ma l'accidioso non riesce neppure a dormire bene: "infatti di lì a poco la fame gli risveglia l'anima con le sue preoccupazioni.
La condotta che Evagrio descrive per molti versi ci richiama alla mente quella propria di un nostro studente svogliato, o più in generale, quella di chi è costretto a fare un lavoro per cui non nutre nessun interesse. L'accidia è "una debolezza (atonia) dell'anima", e in ciò, secondo Evagrio, differisce dalla tristezza che è invece da intendere come "un abbattimento (lupe) dell'anima". Come si vede, la differenza è sottile poiché è evidente che la debolezza dell'anima consegue a un suo qualche abbattimento. Abbattimento e debolezza trapassano facilmente l'uno nell'altra. A questo punto viene da domandarsi se sia la mancanza di tenacia nel perseguire gli obbiettivi a generare una sfiducia che induce abbattimento o, al contrario, se l'incapacità di porsi obbiettivi e di eleggere fini discenda da un certo disamore, da una sorta di disaffezione del mondo ove tutto è equivalente e perciò nulla merita attenzione. Allora non vale la pena spendersi. È già molto adeguarsi.
Nel nostro mondo l'accidia non prende più il volto della pigrizia, ma quello del lasciare fare, dell'abbozzare. Tanto, si dice: "sono tutti uguali e migliorare è impossibile". Questo modo di ragionare evita costantemente di mettere in questione la propria condotta. E per condotta intendo qui quella quotidiana fatta più di omissioni che di azioni. Da questo punto di vista gli accidiosi possono sentirsi, se non perfettamente onesti, di certo corretti. Secondo Tommaso d'Aquino - e non solo lui -1'accidia è un vizio capitale. Per capitale è da intendersi quel vizio da cui se ne generano altri. È vero, il disimpegno non sempre è figlio dell'indolenza, ma nasce dalle effettive difficoltà a mutare l'andazzo delle cose. Di qui una reale amarezza - amaritudo, dice Tommaso riprendendo Isidoro. L'amarezza indebolisce, non senza, però, alimentare un profondo rancore. Non ci piace come vanno le cose: allora, anziché rompere le regole del gioco, contrapporsi e resistere, si preferisce sparlare di tutto e di tutti. Si trova nel disfattismo il surrogato della virtù. In tal modo, nel momento stesso in cui si resta oziosi ci si permette d'essere critici: si diviene verbosi. L'accidioso, lungi dall'aggredire la radice del malessere e dall'affrontare il nodo dei problemi, divaga: preferisce il pettegolezzo alla ricerca delle cause, non è mai consapevolmente critico, ma genericamente curioso. Tommaso ha perfettamente ragione quando afferma che l'accidia genera 1'importunitas mentis e la curiositas. L'accidioso diserta il fine e per non affogare nell'amarezza si distrae: più esattamente si lascia andare. Di qui quella che Tommaso chiama 1'inquietudo corporis, il muoversi a vuoto, e l'instabilitas, il non trovare un ubi consistam, un luogo in cui stare davvero. Di qui l'evagatio circa illicita. L'accidioso si diverte come può, si occasionali piaceri per compensare la delusione. Per tal via diviene ancora più debole. In taluni casi, fino alla disperazione.
La nostra società non ci permette più d'essere pigri. Essa ci impiega a dovere e molto spesso ci rende più del giusto "indaffarati". Non sempre siamo però soddisfatti di come viviamo. Di qui una voglia indeterminata di far altro, il desiderio di cambiare. Siamo vincolati a scadenze e siamo costretti da obblighi. Tuttavia non sappiamo attendere come dovremmo ai nostri compiti, anche perché, nella maggior parte dei casi, non sono stati scelti da noi. Viviamo nel mondo del fare, ma l'agire è spesso accompagnato dalla disaffezione: la smania di distrazione prevale sulla capacità di attenzione. Nella nostra società l'accidia ha preso, dunque, le forme del conformismo sociale e dell'eversione verbale, della curiosità distratta - che impropriamente è fatta valere come divulgazione - anziché della conoscenza accurata delle cose. Quest'ultima - in qualunque modo la si rivolti - esige fatica. L'accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia! Evagrio, monaco antico, queste cose le conosceva molto bene: "Non basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una sola cella per l'acedioso". L'accidioso non sa portare a compimento l'opera. Tutt'al più è capace di divagazione.
Scritto da Giulia il ottobre
pp. 11-13.
L’accidia non equivale al semplice far niente. Essa, piuttosto, corrisponde all'incapacità di prendere sul serio le cose, di sapere attendere a quel che si deve fare e di portare a compimento le opere. L'accidia è dunque abulia, indolenza, è una sorta di torpore che induce alla distrazione.
Più che dall'inazione, l'accidia è caratterizzata dall'assenza di concentrazione. Accidioso, dunque, è colui che non sa essere perseverante, che è soprattutto svagato. Evagrio Pontico, personalità eminente del monachesimo orientale antico, dava dell'accidioso questo ritratto: '1'occhio dell'acedioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite... Quando legge, l'acedioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po', ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo". Ma l'accidioso non riesce neppure a dormire bene: "infatti di lì a poco la fame gli risveglia l'anima con le sue preoccupazioni.
La condotta che Evagrio descrive per molti versi ci richiama alla mente quella propria di un nostro studente svogliato, o più in generale, quella di chi è costretto a fare un lavoro per cui non nutre nessun interesse. L'accidia è "una debolezza (atonia) dell'anima", e in ciò, secondo Evagrio, differisce dalla tristezza che è invece da intendere come "un abbattimento (lupe) dell'anima". Come si vede, la differenza è sottile poiché è evidente che la debolezza dell'anima consegue a un suo qualche abbattimento. Abbattimento e debolezza trapassano facilmente l'uno nell'altra. A questo punto viene da domandarsi se sia la mancanza di tenacia nel perseguire gli obbiettivi a generare una sfiducia che induce abbattimento o, al contrario, se l'incapacità di porsi obbiettivi e di eleggere fini discenda da un certo disamore, da una sorta di disaffezione del mondo ove tutto è equivalente e perciò nulla merita attenzione. Allora non vale la pena spendersi. È già molto adeguarsi.
Nel nostro mondo l'accidia non prende più il volto della pigrizia, ma quello del lasciare fare, dell'abbozzare. Tanto, si dice: "sono tutti uguali e migliorare è impossibile". Questo modo di ragionare evita costantemente di mettere in questione la propria condotta. E per condotta intendo qui quella quotidiana fatta più di omissioni che di azioni. Da questo punto di vista gli accidiosi possono sentirsi, se non perfettamente onesti, di certo corretti. Secondo Tommaso d'Aquino - e non solo lui -1'accidia è un vizio capitale. Per capitale è da intendersi quel vizio da cui se ne generano altri. È vero, il disimpegno non sempre è figlio dell'indolenza, ma nasce dalle effettive difficoltà a mutare l'andazzo delle cose. Di qui una reale amarezza - amaritudo, dice Tommaso riprendendo Isidoro. L'amarezza indebolisce, non senza, però, alimentare un profondo rancore. Non ci piace come vanno le cose: allora, anziché rompere le regole del gioco, contrapporsi e resistere, si preferisce sparlare di tutto e di tutti. Si trova nel disfattismo il surrogato della virtù. In tal modo, nel momento stesso in cui si resta oziosi ci si permette d'essere critici: si diviene verbosi. L'accidioso, lungi dall'aggredire la radice del malessere e dall'affrontare il nodo dei problemi, divaga: preferisce il pettegolezzo alla ricerca delle cause, non è mai consapevolmente critico, ma genericamente curioso. Tommaso ha perfettamente ragione quando afferma che l'accidia genera 1'importunitas mentis e la curiositas. L'accidioso diserta il fine e per non affogare nell'amarezza si distrae: più esattamente si lascia andare. Di qui quella che Tommaso chiama 1'inquietudo corporis, il muoversi a vuoto, e l'instabilitas, il non trovare un ubi consistam, un luogo in cui stare davvero. Di qui l'evagatio circa illicita. L'accidioso si diverte come può, si occasionali piaceri per compensare la delusione. Per tal via diviene ancora più debole. In taluni casi, fino alla disperazione.
La nostra società non ci permette più d'essere pigri. Essa ci impiega a dovere e molto spesso ci rende più del giusto "indaffarati". Non sempre siamo però soddisfatti di come viviamo. Di qui una voglia indeterminata di far altro, il desiderio di cambiare. Siamo vincolati a scadenze e siamo costretti da obblighi. Tuttavia non sappiamo attendere come dovremmo ai nostri compiti, anche perché, nella maggior parte dei casi, non sono stati scelti da noi. Viviamo nel mondo del fare, ma l'agire è spesso accompagnato dalla disaffezione: la smania di distrazione prevale sulla capacità di attenzione. Nella nostra società l'accidia ha preso, dunque, le forme del conformismo sociale e dell'eversione verbale, della curiosità distratta - che impropriamente è fatta valere come divulgazione - anziché della conoscenza accurata delle cose. Quest'ultima - in qualunque modo la si rivolti - esige fatica. L'accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia! Evagrio, monaco antico, queste cose le conosceva molto bene: "Non basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una sola cella per l'acedioso". L'accidioso non sa portare a compimento l'opera. Tutt'al più è capace di divagazione.
Scritto da Giulia il ottobre