Il rapporto deformato con lo spazio
E. Bianchi, Una lotta per la vita, San Paolo.
pp. 189-201.
Lungo i secoli quello dell'akedía - termine che nel greco classico indica la mancanza o il venir meno di un interesse, di un'attenzione, di una sol¬lecitudine - è stato considerato come il male per eccel¬lenza dei monaci, a partire dalla celebre descrizione for¬nitane da Evagrio:
Il demone dell'acedia, che viene chiamato anche «demone di mezzogiorno» (Sal 91,6), è di tutti i demoni il più op¬primente. Attacca il monaco verso l'ora quarta [le 10] e accerchia la sua anima fino all'ora ottava [le 14]. Dap¬prima fa sì che il sole sembri lento a muoversi, o sia im¬mobile, e dà l'impressione che il giorno abbia cinquanta ore. Poi costringe il monaco a fissare continuamente le finestre e a balzare fuori dalla sua cella, a osservare il sole per vedere quanto sia ancora distante l'ora nona, e a guar¬dare intorno se per caso qualcuno dei fratelli... Inoltre gli ispira avversione per il luogo, per il suo stato di vita e per il lavoro manuale, e gli suggerisce che l'amore è svanito tra i fratelli e che non c'è nessuno per consolarlo. E se per caso, in quei giorni, qualcuno ha contristato il monaco, il demone si serve anche di questo per accrescere in lui l'av¬versione. Lo porta allora a desiderare altri luoghi in cui si possa trovare il necessario per vivere ed esercitare un me¬stiere meno gravoso e più redditizio. E aggiunge che l'essere graditi a Dio non è legato a un luogo: ovunque infatti -è detto-si può adorare la Divinità (cf. Gv 4,21-24). Uni¬sce a ciò anche il ricordo dei parenti e della sua vita pas¬sata, gli prospetta la lunga durata della vita, mettendogli davanti agli occhi le fatiche dell'ascesi. E mobilita, per così dire, tutto il suo armamentario, affinché il monaco ab¬bandoni la cella e fugga dallo stadio. Ora, a questo de¬mone non segue immediatamente nessun altro demone. Anzi, dopo la lotta, subentrano nell'anima un certo stato di pace e una «gioia indicibile» (1Pt 1,8).
Ora, se questa caratterizzazione monastica dell'ace¬dia, o accidia, contiene una sua innegabile verità, è però vero che tale malattia riguarda in profondità ogni per¬sona; anzi, sono in molti oggi a chiedersi se l'acedia non sia forse il male del nostro tempo, quello che tocca più da vicino l'uomo contemporaneo. Questa tentazione, che l'essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l'aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendi¬cazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiu¬tati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l'insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall'acedia, da questo «male oscuro» che impedisce il dinamismo dell'amare e del¬l'essere amati.
Possiamo comprendere meglio tutto questo ricor¬rendo ad alcuni sinonimi dell'acedia che suonano più familiari ai nostri orecchi: sconforto, svogliatezza, sco¬raggiamento, tedio, disgusto, noia, male di vivere, quel torpore che si manifesta come costante sonnolenza, e si potrebbe continuare a lungo... L'acedia è la nausea di cui parlava Jean-Paul Sartre, è il non-senso che ci assale, è ciò che si avvicina pericolosamente alla stato di depressione. È un sentimento che rasenta la dispera¬zione, perché porta a non scorgere più la possibilità di un senso e, dunque, di «salvezza». L'acedia può tra¬dursi in uno dei mali più devastanti, l'indifferenza, per¬ché «il contrario dell'amore non è l'odio, ma l'indiffe¬renza; il contrario della vita non è la morte, ma l'indif¬ferenza» (Elie Wiesel).
Evagrio definisce bene questa pulsione quale «ato¬nia dell'anima» (atonia tés psyches) e Giovanni Cli¬maco la chiama «paralisi dell'anima» (paresis tés psy¬chés). Ai nostri giorni Umberto Galimberti ne parla come di «vuoto intellettuale, noia, malinconia», espres¬sioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi quanto piuttosto a un sentimento di «esilio sulla terra». L'acedia è superficialità, tristezza, mancanza di resistenza, di profondità, di perseveranza in un luogo e in un lavoro. Chi è malato di acedia non sa concen¬trarsi, non sa prendere le cose sul serio, non sa andare fino in fondo né portare a compimento ciò che intraprende, non sa essere «qui e ora», hic et nunc, ma è sempre altrove. In radice l'acedia è dunque incapacità di perseverare, di dedicarsi, di avere cura (akedía deriva da a-kédos, «senza cura»). Chi è preda di tale malattia sogna magari di fare il bene semplicemente perché si li¬mita a intraprendere delle cose buone, ma in realtà cerca solo di distrarsi. Annota ancora Evagrio: «L'ac¬cidioso prende come pretesto le visite ai malati, ma sod¬disfa il proprio scopo; è pronto al servizio, ma in realtà cerca solo la propria soddisfazione».
Pur essendo «compagna della tristezza», al punto che Gregorio Magno finisce per racchiuderla entro que¬st'ultima, l'acedia è ben più forte della tristezza. Essa differisce dalla malattia sorella per il fatto che non trae origine da una motivazione precisa o concreta: è una pulsione di morte che ispira all'uomo la stanchezza e il disgusto per la vita intesa nella sua totalità. L'acedia fa crollare l'edificio della propria persona e, in partico¬lare, provoca un'enorme insofferenza verso lo spazio in cui si vive, a partire da quello del proprio corpo: si vorrebbe cambiare pelle. La reazione tipica all’insorgere dell'acedia consiste nel desiderio di fuggire dal luogo in cui abitualmente si vive, di mutare il proprio stato di vita; ci si sente rinchiusi nella propria esistenza come in una sorta di prigione, come in un tempo inter¬medio drammaticamente privo di sbocchi. Ripeto, si sogna sempre di essere altrove... Mi affido di nuovo alle parole di Evagrio, impareggiabile nel ritrarre con acu¬tezza e ironia la sindrome dell'acedia:
L'occhio dell'accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella sua mente fantastica sui visitatori: la porta cigola, e quello balza fuori; sente una voce, e spia dalla finestra, e non se ne allontana, finché non è costretto a sedersi, tutto intorpidito. Quando legge, l'accidioso sbadiglia spesso, ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani, e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro; quindi, di nuovo volgendosi al libro, legge ancora un poco, poi, piegando le pagine, le gira, conta i fogli, calcola i fa¬scicoli, biasima la scrittura e la decorazione; infine, chi¬nata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo risveglia e lo spinge a occuparsi dei suoi bisogni. Il monaco accidioso è pigro nella preghiera e non pronuncia le parole dell'orazione; come un malato non può portare un fardello pesante, così l'accidioso non compie con sollecitudine l'opera di Dio: infatti il primo ha perso la forza del corpo, il secondo è il¬languidito, privo del vigore dell'anima.
Ed ecco che nel quotidiano sorgono indifferenza, noia, disgusto per tutto ciò che si fa, compreso lo sforzo spirituale, che appare sterile e inutile. La domanda più frequente è: «Chi me lo fa fare? Ne vale la pena?». In queste condizioni la noia si impone come una forza che ci schiaccia: noia per tutto, che si esprime negli sbadi¬gli che accompagnano l'inizio di qualsiasi occupazione, nel vagare costantemente tra un luogo e l'altro, nel non sapere cosa fare, e quindi nell'incapacità di possedere convinzioni che consentano di vincere gli attacchi del nulla. Davvero l'acedia porta a conoscere una sorta di inferno: le relazioni divengono frustranti, dove si era figli ci si sente schiavi, l'amore di un tempo appare una trappola; eppure, paradossalmente, in questa situazione si pretende di avere una chiarezza su di sé mai cono¬sciuta in precedenza. Va anche detto che l'acedia at¬tacca più facilmente chi ha l'animo piccolo e gli oriz¬zonti ristretti, chi vive in un mondo per così dire « lilli¬puziano», e, di conseguenza, è incapace di nutrire interessi ampi, di esercitarsi al dialogo con gli altri che dà sapore alla vita.
Una particolare forma assunta dal «demone di mez¬zogiorno» è poi quella che coglie l'uomo a metà del cammino della sua vita, la cosiddetta «crisi dell'età di mezzo»",1'ora in cui si è portati a rimettere in discus¬sione tutta la propria esistenza. È in quel momento che occorre più che mai passare dagli idoli dell'avere e del fare alla realtà dell'essere, dalla prospettiva dell'affer¬mazione dell'io alla sua «relativizzazione e integrazione nell'archetipo della totalità, il sé» (Carl Gustav Jung).
C'è poi un aspetto preciso che rivela come l'acedia sia una patologia che concerne anche il rapporto con il tempo: l'instabilità. Per evitare ciò che gli è richiesto, ossia di fare bene ciò che si deve fare, l'accidioso si co¬struisce alibi: vuole fare altre cose che a suo avviso gli competono o gli si confanno, cose che sono sempre altre da quelle che, in quel momento, dovrebbe fare! Giovanni Climaco così descrive tale instabilità:
L'acedia suggerisce di accogliere gli ospiti e costringe a compiere lavori manuali per poter fare elemosine, esorta con ardore a visitare i malati, ricordando la parola di colui che ha detto: «Ero malato e siete venuti a trovarmi» (Mi 25,36). Suggerisce di recarsi da coloro che sono abbattuti e scoraggiati, dicendo: «Confortate i pusillanimi!» (1Ts 5,14), proprio lei, la pusillanime! Quando siamo in pre¬ghiera, ci fa venire in mente qualche dovere urgente, e mette in moto ogni espediente per trascinarci via di là, con buone ragioni, come con una cavezza, proprio lei così ir¬ragionevole! Per tre ore il demone dell'acedia ci provoca brividi, mal di testa, febbre e dolori intestinali. Giunta l'ora nona, ci fa alzare un po' il capo, e poi, quando la tavola è pronta, ci fa balzare giù dal letto. Appena però giunge l'ora della preghiera, il corpo si sente di nuovo appesantito; e, mentre siamo in preghiera, ci immerge di nuovo nel sonno e con inopportuni sbadigli ci strappa di bocca i versetti.
Alcuni osservano inoltre che l'acedia è sempre pre¬sente in tutti i rapporti sbagliati, dunque in tutte le pas¬sioni malvagie, perché essa affonda le sue radici nella philautía, nell'amore egoistico di sé: un io ripiegato su di sé non può stringere relazioni e rapporti autentici, buoni, sani e fecondi. Ecco perché Paolo scrive che «gli amanti di se stessi» (phílautoi: 2Tm 3,2) non possono essere «amanti di Dio» (philótheoi: 2Tm 3,4).
La lotta contro l'acedia è quella che meno di altre può essere affrontata con l'aiuto di strumenti generali, perché quando ci si trova immersi in questa condizione è assai difficile ricorrere a rimedi predefiniti. Cassiano, declinando l'acedia come pigrizia, suggeriva di resi¬stervi soprattutto attraverso un'assunzione sana ed equilibrata del lavoro, e ciò può essere indubbiamente utile, soprattutto se inteso come esercizio per assumere l'arte dell'hic et nunc: dedicarsi alla propria occupa¬zione presente con cura, attenzione, giusta misura. Eva¬grio dal canto suo suggerisce questa sapiente regola di base: «Fissati una misura (métron) in ogni attività, e non abbandonarla finché non l'hai portata a termine».
Ma c'è di più. Il primo e decisivo passo da fare è quello di riconoscere l'acedia e chiamarla per nome. Forti di questa consapevolezza, si tratta di non diser¬tare la lotta, di non pensare di potersela cavare riman¬dando costantemente all'indomani il confronto con gli assalti dell'acedia, per quanto sia doloroso decidersi ad affrontarla. Da un punto di vista cristiano, è questo il terreno della perseveranza (hypomoné), l'arte di rima¬nere saldi, di pazientare e di non venire meno nell'ora cattiva, l'arte di cui Gesù ha affermato: «Con la vostra perseveranza guadagnerete le vostre vite» (Lc 21,19). Solo chi ha imparato a coltivare una vita interiore ricca e profonda, che consenta di non essere sballottati da ogni soffio di vento, solo questi non vacilla.
A questo proposito va detto che la nostra società è malata di acedia nel senso che oggi primeggia, emerge, domina la figura del «fannullone iperattivo» (Pascal Bruckner). L'uomo comune non è più capace di habi¬tare secum, di restare presso se stesso, di stare sempli¬cemente nella propria camera in solitudine, di acco¬gliere e leggere ciò che nasce nel suo profondo, di di¬scernere il proprio desiderio. Nervosità e agitazione in¬sorgono prepotenti, e così si trovano ragioni per fug¬gire ciò che sembra un fantasma ma che, in realtà, è solo ciò che emerge, inatteso, dal profondo. Blaise Pa¬scal scriveva che «la sventura più grande degli uomini deriva da una sola cosa: dal fatto che non sanno rima¬nere in riposo nella loro camera», e aveva ragione...
Ebbene, è proprio a livello di una salda e profonda vita interiore che i cristiani sono posti di fronte alla do¬manda decisiva: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: non riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5). Discernere Cristo in se stessi, infatti, con¬duce a fare della propria persona il luogo quotidiano della presenza del Signore, la dimora di Dio (cf. 1Cor 3,16; 2Cor 6,16), il tempio nel quale offrire a Dio il vero sacrificio spirituale, quello della propria vita quotidiana (cf. Rm 12,1).
Qui si innestano anche i suggerimenti indicati dai padri, in particolare quelli monastici, per controllare e vincere il demone dell'acedia. Suggerimenti che hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il di¬scernimento sulla volontà propria: l'invocazione del nome di Gesù, la preghiera, l'assiduità alle sante Scrit¬ture ... Proseguendo su questo solco, io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l'eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come sa¬crificium laudis pieno di stupore contemplativo nei confronti del «Dio» che «è amore» (1Gv 4,8.16). L'acedia, infatti, è l'esatto contrario dell'eucaristia, dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rap¬porto con lo «spazio» e il senso delle cose, chi è preda dell'acedia vive nella a-charistía, nell'incapacità a stu¬pirsi della bellezza, dell'amore e, quindi, nell'incapa¬cità a rendere grazie.
Infine, non lo si dimentichi, dopo che questa lotta è stata affrontata e vinta, si spande nel nostro cuore una grande pace e una gioia indicibile. Sì, dietro la temibile insidia costituita dall'acedia si cela la vera possibilità di una vita piena di senso, quella vita in cui si sperimenta che «tutto vale la pena, se l'anima non è piccola» (Ferdinando Pessoa, Mare portoghese).
Scritto da Giulia il ottobre
E. Bianchi, Una lotta per la vita, San Paolo.
pp. 189-201.
Lungo i secoli quello dell'akedía - termine che nel greco classico indica la mancanza o il venir meno di un interesse, di un'attenzione, di una sol¬lecitudine - è stato considerato come il male per eccel¬lenza dei monaci, a partire dalla celebre descrizione for¬nitane da Evagrio:
Il demone dell'acedia, che viene chiamato anche «demone di mezzogiorno» (Sal 91,6), è di tutti i demoni il più op¬primente. Attacca il monaco verso l'ora quarta [le 10] e accerchia la sua anima fino all'ora ottava [le 14]. Dap¬prima fa sì che il sole sembri lento a muoversi, o sia im¬mobile, e dà l'impressione che il giorno abbia cinquanta ore. Poi costringe il monaco a fissare continuamente le finestre e a balzare fuori dalla sua cella, a osservare il sole per vedere quanto sia ancora distante l'ora nona, e a guar¬dare intorno se per caso qualcuno dei fratelli... Inoltre gli ispira avversione per il luogo, per il suo stato di vita e per il lavoro manuale, e gli suggerisce che l'amore è svanito tra i fratelli e che non c'è nessuno per consolarlo. E se per caso, in quei giorni, qualcuno ha contristato il monaco, il demone si serve anche di questo per accrescere in lui l'av¬versione. Lo porta allora a desiderare altri luoghi in cui si possa trovare il necessario per vivere ed esercitare un me¬stiere meno gravoso e più redditizio. E aggiunge che l'essere graditi a Dio non è legato a un luogo: ovunque infatti -è detto-si può adorare la Divinità (cf. Gv 4,21-24). Uni¬sce a ciò anche il ricordo dei parenti e della sua vita pas¬sata, gli prospetta la lunga durata della vita, mettendogli davanti agli occhi le fatiche dell'ascesi. E mobilita, per così dire, tutto il suo armamentario, affinché il monaco ab¬bandoni la cella e fugga dallo stadio. Ora, a questo de¬mone non segue immediatamente nessun altro demone. Anzi, dopo la lotta, subentrano nell'anima un certo stato di pace e una «gioia indicibile» (1Pt 1,8).
Ora, se questa caratterizzazione monastica dell'ace¬dia, o accidia, contiene una sua innegabile verità, è però vero che tale malattia riguarda in profondità ogni per¬sona; anzi, sono in molti oggi a chiedersi se l'acedia non sia forse il male del nostro tempo, quello che tocca più da vicino l'uomo contemporaneo. Questa tentazione, che l'essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l'aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendi¬cazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiu¬tati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l'insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall'acedia, da questo «male oscuro» che impedisce il dinamismo dell'amare e del¬l'essere amati.
Possiamo comprendere meglio tutto questo ricor¬rendo ad alcuni sinonimi dell'acedia che suonano più familiari ai nostri orecchi: sconforto, svogliatezza, sco¬raggiamento, tedio, disgusto, noia, male di vivere, quel torpore che si manifesta come costante sonnolenza, e si potrebbe continuare a lungo... L'acedia è la nausea di cui parlava Jean-Paul Sartre, è il non-senso che ci assale, è ciò che si avvicina pericolosamente alla stato di depressione. È un sentimento che rasenta la dispera¬zione, perché porta a non scorgere più la possibilità di un senso e, dunque, di «salvezza». L'acedia può tra¬dursi in uno dei mali più devastanti, l'indifferenza, per¬ché «il contrario dell'amore non è l'odio, ma l'indiffe¬renza; il contrario della vita non è la morte, ma l'indif¬ferenza» (Elie Wiesel).
Evagrio definisce bene questa pulsione quale «ato¬nia dell'anima» (atonia tés psyches) e Giovanni Cli¬maco la chiama «paralisi dell'anima» (paresis tés psy¬chés). Ai nostri giorni Umberto Galimberti ne parla come di «vuoto intellettuale, noia, malinconia», espres¬sioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi quanto piuttosto a un sentimento di «esilio sulla terra». L'acedia è superficialità, tristezza, mancanza di resistenza, di profondità, di perseveranza in un luogo e in un lavoro. Chi è malato di acedia non sa concen¬trarsi, non sa prendere le cose sul serio, non sa andare fino in fondo né portare a compimento ciò che intraprende, non sa essere «qui e ora», hic et nunc, ma è sempre altrove. In radice l'acedia è dunque incapacità di perseverare, di dedicarsi, di avere cura (akedía deriva da a-kédos, «senza cura»). Chi è preda di tale malattia sogna magari di fare il bene semplicemente perché si li¬mita a intraprendere delle cose buone, ma in realtà cerca solo di distrarsi. Annota ancora Evagrio: «L'ac¬cidioso prende come pretesto le visite ai malati, ma sod¬disfa il proprio scopo; è pronto al servizio, ma in realtà cerca solo la propria soddisfazione».
Pur essendo «compagna della tristezza», al punto che Gregorio Magno finisce per racchiuderla entro que¬st'ultima, l'acedia è ben più forte della tristezza. Essa differisce dalla malattia sorella per il fatto che non trae origine da una motivazione precisa o concreta: è una pulsione di morte che ispira all'uomo la stanchezza e il disgusto per la vita intesa nella sua totalità. L'acedia fa crollare l'edificio della propria persona e, in partico¬lare, provoca un'enorme insofferenza verso lo spazio in cui si vive, a partire da quello del proprio corpo: si vorrebbe cambiare pelle. La reazione tipica all’insorgere dell'acedia consiste nel desiderio di fuggire dal luogo in cui abitualmente si vive, di mutare il proprio stato di vita; ci si sente rinchiusi nella propria esistenza come in una sorta di prigione, come in un tempo inter¬medio drammaticamente privo di sbocchi. Ripeto, si sogna sempre di essere altrove... Mi affido di nuovo alle parole di Evagrio, impareggiabile nel ritrarre con acu¬tezza e ironia la sindrome dell'acedia:
L'occhio dell'accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella sua mente fantastica sui visitatori: la porta cigola, e quello balza fuori; sente una voce, e spia dalla finestra, e non se ne allontana, finché non è costretto a sedersi, tutto intorpidito. Quando legge, l'accidioso sbadiglia spesso, ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani, e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro; quindi, di nuovo volgendosi al libro, legge ancora un poco, poi, piegando le pagine, le gira, conta i fogli, calcola i fa¬scicoli, biasima la scrittura e la decorazione; infine, chi¬nata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo risveglia e lo spinge a occuparsi dei suoi bisogni. Il monaco accidioso è pigro nella preghiera e non pronuncia le parole dell'orazione; come un malato non può portare un fardello pesante, così l'accidioso non compie con sollecitudine l'opera di Dio: infatti il primo ha perso la forza del corpo, il secondo è il¬languidito, privo del vigore dell'anima.
Ed ecco che nel quotidiano sorgono indifferenza, noia, disgusto per tutto ciò che si fa, compreso lo sforzo spirituale, che appare sterile e inutile. La domanda più frequente è: «Chi me lo fa fare? Ne vale la pena?». In queste condizioni la noia si impone come una forza che ci schiaccia: noia per tutto, che si esprime negli sbadi¬gli che accompagnano l'inizio di qualsiasi occupazione, nel vagare costantemente tra un luogo e l'altro, nel non sapere cosa fare, e quindi nell'incapacità di possedere convinzioni che consentano di vincere gli attacchi del nulla. Davvero l'acedia porta a conoscere una sorta di inferno: le relazioni divengono frustranti, dove si era figli ci si sente schiavi, l'amore di un tempo appare una trappola; eppure, paradossalmente, in questa situazione si pretende di avere una chiarezza su di sé mai cono¬sciuta in precedenza. Va anche detto che l'acedia at¬tacca più facilmente chi ha l'animo piccolo e gli oriz¬zonti ristretti, chi vive in un mondo per così dire « lilli¬puziano», e, di conseguenza, è incapace di nutrire interessi ampi, di esercitarsi al dialogo con gli altri che dà sapore alla vita.
Una particolare forma assunta dal «demone di mez¬zogiorno» è poi quella che coglie l'uomo a metà del cammino della sua vita, la cosiddetta «crisi dell'età di mezzo»",1'ora in cui si è portati a rimettere in discus¬sione tutta la propria esistenza. È in quel momento che occorre più che mai passare dagli idoli dell'avere e del fare alla realtà dell'essere, dalla prospettiva dell'affer¬mazione dell'io alla sua «relativizzazione e integrazione nell'archetipo della totalità, il sé» (Carl Gustav Jung).
C'è poi un aspetto preciso che rivela come l'acedia sia una patologia che concerne anche il rapporto con il tempo: l'instabilità. Per evitare ciò che gli è richiesto, ossia di fare bene ciò che si deve fare, l'accidioso si co¬struisce alibi: vuole fare altre cose che a suo avviso gli competono o gli si confanno, cose che sono sempre altre da quelle che, in quel momento, dovrebbe fare! Giovanni Climaco così descrive tale instabilità:
L'acedia suggerisce di accogliere gli ospiti e costringe a compiere lavori manuali per poter fare elemosine, esorta con ardore a visitare i malati, ricordando la parola di colui che ha detto: «Ero malato e siete venuti a trovarmi» (Mi 25,36). Suggerisce di recarsi da coloro che sono abbattuti e scoraggiati, dicendo: «Confortate i pusillanimi!» (1Ts 5,14), proprio lei, la pusillanime! Quando siamo in pre¬ghiera, ci fa venire in mente qualche dovere urgente, e mette in moto ogni espediente per trascinarci via di là, con buone ragioni, come con una cavezza, proprio lei così ir¬ragionevole! Per tre ore il demone dell'acedia ci provoca brividi, mal di testa, febbre e dolori intestinali. Giunta l'ora nona, ci fa alzare un po' il capo, e poi, quando la tavola è pronta, ci fa balzare giù dal letto. Appena però giunge l'ora della preghiera, il corpo si sente di nuovo appesantito; e, mentre siamo in preghiera, ci immerge di nuovo nel sonno e con inopportuni sbadigli ci strappa di bocca i versetti.
Alcuni osservano inoltre che l'acedia è sempre pre¬sente in tutti i rapporti sbagliati, dunque in tutte le pas¬sioni malvagie, perché essa affonda le sue radici nella philautía, nell'amore egoistico di sé: un io ripiegato su di sé non può stringere relazioni e rapporti autentici, buoni, sani e fecondi. Ecco perché Paolo scrive che «gli amanti di se stessi» (phílautoi: 2Tm 3,2) non possono essere «amanti di Dio» (philótheoi: 2Tm 3,4).
La lotta contro l'acedia è quella che meno di altre può essere affrontata con l'aiuto di strumenti generali, perché quando ci si trova immersi in questa condizione è assai difficile ricorrere a rimedi predefiniti. Cassiano, declinando l'acedia come pigrizia, suggeriva di resi¬stervi soprattutto attraverso un'assunzione sana ed equilibrata del lavoro, e ciò può essere indubbiamente utile, soprattutto se inteso come esercizio per assumere l'arte dell'hic et nunc: dedicarsi alla propria occupa¬zione presente con cura, attenzione, giusta misura. Eva¬grio dal canto suo suggerisce questa sapiente regola di base: «Fissati una misura (métron) in ogni attività, e non abbandonarla finché non l'hai portata a termine».
Ma c'è di più. Il primo e decisivo passo da fare è quello di riconoscere l'acedia e chiamarla per nome. Forti di questa consapevolezza, si tratta di non diser¬tare la lotta, di non pensare di potersela cavare riman¬dando costantemente all'indomani il confronto con gli assalti dell'acedia, per quanto sia doloroso decidersi ad affrontarla. Da un punto di vista cristiano, è questo il terreno della perseveranza (hypomoné), l'arte di rima¬nere saldi, di pazientare e di non venire meno nell'ora cattiva, l'arte di cui Gesù ha affermato: «Con la vostra perseveranza guadagnerete le vostre vite» (Lc 21,19). Solo chi ha imparato a coltivare una vita interiore ricca e profonda, che consenta di non essere sballottati da ogni soffio di vento, solo questi non vacilla.
A questo proposito va detto che la nostra società è malata di acedia nel senso che oggi primeggia, emerge, domina la figura del «fannullone iperattivo» (Pascal Bruckner). L'uomo comune non è più capace di habi¬tare secum, di restare presso se stesso, di stare sempli¬cemente nella propria camera in solitudine, di acco¬gliere e leggere ciò che nasce nel suo profondo, di di¬scernere il proprio desiderio. Nervosità e agitazione in¬sorgono prepotenti, e così si trovano ragioni per fug¬gire ciò che sembra un fantasma ma che, in realtà, è solo ciò che emerge, inatteso, dal profondo. Blaise Pa¬scal scriveva che «la sventura più grande degli uomini deriva da una sola cosa: dal fatto che non sanno rima¬nere in riposo nella loro camera», e aveva ragione...
Ebbene, è proprio a livello di una salda e profonda vita interiore che i cristiani sono posti di fronte alla do¬manda decisiva: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: non riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5). Discernere Cristo in se stessi, infatti, con¬duce a fare della propria persona il luogo quotidiano della presenza del Signore, la dimora di Dio (cf. 1Cor 3,16; 2Cor 6,16), il tempio nel quale offrire a Dio il vero sacrificio spirituale, quello della propria vita quotidiana (cf. Rm 12,1).
Qui si innestano anche i suggerimenti indicati dai padri, in particolare quelli monastici, per controllare e vincere il demone dell'acedia. Suggerimenti che hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il di¬scernimento sulla volontà propria: l'invocazione del nome di Gesù, la preghiera, l'assiduità alle sante Scrit¬ture ... Proseguendo su questo solco, io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l'eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come sa¬crificium laudis pieno di stupore contemplativo nei confronti del «Dio» che «è amore» (1Gv 4,8.16). L'acedia, infatti, è l'esatto contrario dell'eucaristia, dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rap¬porto con lo «spazio» e il senso delle cose, chi è preda dell'acedia vive nella a-charistía, nell'incapacità a stu¬pirsi della bellezza, dell'amore e, quindi, nell'incapa¬cità a rendere grazie.
Infine, non lo si dimentichi, dopo che questa lotta è stata affrontata e vinta, si spande nel nostro cuore una grande pace e una gioia indicibile. Sì, dietro la temibile insidia costituita dall'acedia si cela la vera possibilità di una vita piena di senso, quella vita in cui si sperimenta che «tutto vale la pena, se l'anima non è piccola» (Ferdinando Pessoa, Mare portoghese).
Scritto da Giulia il ottobre