Come già scriveva Bonhoeffer nelle lettere dal carcere poi pubblicate con il titolo “Resistenza e resa”, la semplicità e un punto d’arrivo, uno dei più alti. La semplicità. Quando noi cominciamo a pensare, quando noi cominciamo ad elaborare qualcosa, in prima battuta siamo logorroici e confusi. Quando abbiamo la possibilità di depositare ciò che abbiamo pensato, di distanziarci da ciò che abbiamo pensato, di rivederlo, di criticarlo, nel senso vero e bello del termine, allora a poco a poco si diventa semplici: il pensiero, come una pietra che viene lavorata, diventa semplice. Questo lo dico perché, nella nostra cultura, è il contrario: siamo vittime di questa malattia spirituale, come facevano notare Simone Weil e Albert Schwartz. Quest’idea che tutto ciò che è alto sia anche necessariamente complesso, confuso. E più c’è fumo, in un certo senso, e più sembra che sia importante. Non è così, per quanto riguarda la mia maniera di vedere.
La prima cosa che vorrei dire la prendo alla larga, voi capirete perchè. Esiste un testo, uno dei più belli, del Vaticano II “ Unitatis redintegratio”, numero 11, secondo cui esiste una gerarchia delle verità. Le verità di fede non sono tutte uguali: un conto è la natura divina di Gesù, un conto l’infallibilità del papa, un conto è la natura umana di Gesù; un conto è l’assunzione di Maria in cielo in corpo e in anima. Non hanno obbiettivamente lo stesso peso teologico e spirituale. La stessa cosa si può dire per i libri della Bibbia: anche questi, i 73 che formano il canone biblico, non hanno tutti lo stesso peso teologico e spirituale. Un conto è parlare, per esempio, del libro della Genesi, e un conto è parlare di essere Neemia. Ecco, i passi di questo libro potrebbero benissimo stare in un programma tra i più razzisti e xenofobi che la storia abbia mai ospitato. La stessa cosa vale per il Nuovo Testamento: un conto è il vangelo di Marco, un conto la lettera di Giuda. Essi non hanno la stessa valenza teologica e spirituale. E la stessa cosa vale per le lettere paoline: un conto è Romani, un conto è prima ai Corinzi; un altro ancora sono le lettere ai Tessalonicesi. E anche lì, nella prima lettera ai Tessalonicesi di Paolo, si possono trovare cose che sarebbe meglio non fossero state scritte, pesanti da accettare. Mi riferisco soprattutto a quel passo, dove ci sono gli ebrei come nemici di Dio che odiano tutti gli uomini.
E così anche all’interno del corpus giovanneo, di cui l’Apocalisse fa parte. Quindi un conto è il vangelo di Giovanni, un conto l’Apocalisse. Perche? Perché l’Apocalisse è un libro strano, un libro che necessita intermediazione, quasi una difesa, come una specie di maschera da saldatore. Avete presente i saldatori, quando saldano, che si devono difendere da queste scintille che potrebbero ledere la vista. Ecco, le espressioni che emergono da questo libro del Nuovo Testamento possono fare male. Questo, ribadisco, secondo la mia opinione. Possono generare intolleranza, aggressività, violenza.
Il Cristianesimo ha conosciuto fenomeni di intolleranza, aggressività e violenza. Come mai? A mio avviso anche a causa di alcune indagini bibliche, anche a causa di alcune pagine dell’Apocalisse. Non è un caso peraltro che il testo dell’Apocalisse entrò tardi a far parte del canone. E soprattutto nelle crisi d’Oriente, quelle, diciamo, più greche, quindi più attente alla dimensione umanistica. Solamente nel V secolo le chiese di Siria e di Palestina accettarono l’Apocalisse nei termini del canone.
Pensate che uno dei più grandi studiosi di questo libro, si chiamava Robert R. Charles ed era un irlandese, ha scritto un commento, che rimane punto di riferimento per tutti gli studiosi. Questo eminente studioso anglicano, che dedicò all’Apocalisse due volumi grossi così, giunse ad ipotizzare l’opera di due autori. Un redattore vero e proprio e un redattore finale che Robert R. Charles definiva fanatico, stupido, ignorante, incapace e, aggiungeva, di sicuro celibe. Perché se si legge l’Apocalisse con attenzione si vede che ci sono anche punte di misoginia. Quello che intendo dire è che l’Apocalisse non è un libro “puro”, secondo me, è uno dei meno evangelici del Nuovo Testamento.
Prima di entrare in medias res, due citazioni.
Nietszche, che probabilmente non era ben disposto nei confronti del cristianesimo, scrive in “Genealogia della morale”: “l’Apocalisse è la più caotica di tutte le invettive scritte che la vendetta abbia sulla coscienza.” E’ impossibile leggere in maniera avvertita, critica, l’Apocalisse senza sentire un tono di odio e, a tratti, di compiacimento per questo odio.
E perfino un cristiano, un gran cristiano, come Nikolai Berdjaev dice che anche nell’Apocalisse è presente un’evidente “escatologia di vendetta”. Si legga, per esempio, il cap 19, in cui l’angelo dice a tutti gli uccelli rapaci di radunarsi e straziare le carni e così via. Lo troverete un testo un po’ stupefacente.
Ora, ho richiamato la gerarchia delle verità: io sono convinto che la fede matura e consapevole, la fede critica, capace di rendere davvero conto di sé stessa, oggi deve procedere ponendo il proprio ruolo interiore nella gerarchia delle verità. E, conseguentemente, anche nei testi biblici. Oggi una fede apprezzata criticamente, capace di resistere all’imperare, all’avanzare del nichilismo deve operare criticamente all’interno del cosiddetto depositum fidei e gerarchizzare, per capire veramente che cosa è essenziale e che cosa è meno essenziale. E solo così, solo con questa operazione critica, la fede può oggi, a mio avviso, sopravvivere.
Secondo punto, seconda tappa di avvicinamento alle sette lettere. Ho parlato di fede matura, potrei anche dire, la fede di un cattolico adulto. Chi usò quest’espressione? Questa fu un’espressione usata a suo tempo da Romano Prodi, che gli costò molto cara. Cito dall’intervista nel quotidiano cattolico francese La Croix (corrispettivo di Avvenire), del 16 maggio 2008 (il governo, il secondo governo Prodi, era caduto l’8 maggio 2008), dice: “Non mi è stata mai perdonata questa frase. Sono un cattolico adulto. Con la presidenza della Conferenza Episcopale ho avuto l’impressione di scontrarmi con un’opposizione politica”.
Ma che cos’è una fede matura? In che senso si parla di cattolico adulto? A mio avviso lo si è evitando due estremi: il primo, l’estremo di prendere, per così dire, per oro colato tutto quello che sta scritto nel Catechismo dal primo all’ultimo articolo, tutto quello che sta scritto nelle encicliche dalla prima all’ultima parola, tutto quello che papi, cardinali etc dicono, e allo stesso modo la Bibbia, prendendo per verità assoluta tutto quello che è contenuto nei testi biblici. Diciamo che il primo pericolo è quello dell’intransigenza cattolica, il secondo quello dell’intransigenza protestante. Questo è l’estremo di chi imposta la propria vita di fede alla luce del principio di autorità.
L’altro estremo, che è pure deleterio e che quindi a mio avviso è sempre da evitare, è il soggettivismo della fede fai da te. Di chi si pone a piacimento di fronte a duemila anni di tradizione, di dogmatica, di spiritualità, di ricerca, e senza studiare, approfondire, conoscere, così a piacimento, prende e riformula a seconda dei propri interessi, dei propri comodi e, a volte, anche dei propri capricci.
Tra questi due estremi, la fede matura di un cattolico adulto, l’unica, secondo me, che può continuare a sopravvivere adeguatamente anche nel nostro mondo, che ha futuro, è la fede che pensa, studia, collega, ragiona per cercare la verità. La verità come bene, la verità che è Dio, che è al di là della verità dottrinale, al di là delle formule, al di là anche delle pagine bibliche.
Cercare di compiere questo movimento di “responsabilità spirituale”, perché è proprio questo che il cattolico adulto deve giungere ad essere: responsabile dal punto di vista spirituale. Il principio di responsabilità di Hans Jonas, che egli voleva porre nella mentalità, nel cuore degli uomini contemporanei, in rapporto al mondo, all’ecologia, al pianeta e agli altri esseri umani, questo stesso principio di responsabilità va posto nel cuore e nella mente dei credenti, nel confronto del loro rapporto con Dio, con la Chiesa, con la grande e sublime tradizione che essa ci porta. Senza questa tradizione noi credenti non saremmo giunti dove siamo ora, e quindi noi dobbiamo assolutamente essere innestati in questa tradizione, perché possa essere dinamismo e non staticità, perché possa avere lo stesso movimento che ha la realtà, cioè l’evoluzione. Perché questo è l’evoluzione: la legge mediante cui il mondo respira, e tutto ciò che non evolve muore. Affinché la fede possa giungere a vivere lo stesso respiro cosmico dell’evoluzione, deve essere sì innestata nella tradizione ma al contempo avere la capacità di distanziarsene. Questo è il movimento della responsabilità spirituale. Esercitando questo movimento si giunge, e non può che essere così, leggendo con attenzione il Nuovo Testamento, gli scritti dei Padri della Chiesa, il Catechismo, e così tutto il grande portato della grande tradizione, non si può non giungere ad una semplice, chiarissima conclusione: che il Cristianesimo è dottrina, è pratica dell’amore. Filosofia dell’amore: visione della vita, dell’essere, della natura, della storia alla luce del primato dell’amore. E che essere Cristiani significa compiere ciò che è grande. Teillhard de Chardin diceva, con l’espressione amouriser le monde, “amorizzare il Mondo”. E’ semplicemente questo ciò che un Cristiano deve fare, e in base a questo, eccoci giunti alla prospettiva in base alla quale gerarchizzare in modo non soggettivo, per non sfociare nel pericolo del capriccio personale, della voglia personale. Occorre oggettività per poter gerarchizzare all’interno di questo patrimonio dottrinale che contiene prospettive contraddittorie e differenti. E qual è il criterio con cui mi posso muovere? Semplice: l’amore.
Con questo criterio dell’amore il senso del messaggio cristiano, per cui io mi sono accostato ad Apocalisse (1, 2, 3), esporrò i risultati di questo mio approccio.
Apocalisse. La prima cosa da dire, come certo saprete, è il significato del termine. Nel significato comune, se voi uscite per strada e lo chiedete al primo che passa, vi dirà che significa “catastrofe”, “rovina totale”. Ebbene, non è immediatamente il significato biblico. Il significato biblico è “rivelazione”, quindi rimanda ad una rivelazione. Qui si potrebbe aprire un bel discorso su cosa significhi rivelazione, come intendere la rivelazione di Dio, perché vi sono diverse teologie della rivelazione. Ma sarebbe un ragionamento troppo lungo. Io vorrei poter esprimere come io intendo questa rivelazione: la mia idea di Apocalisse rivelazione è molto semplice. La rivelazione avviene sempre, in ogni istante, nel tempo e nello spazio, nella misura in cui il tempo e lo spazio si aprono alla dimensione dell’amore, alla dimensione del bene, alla dimensione della giustizia. Nella misura in cui, con tutte le proprie forze, con tutto il proprio cuore, con tutta la propria mente, si attua nell’anima umana la dedizione al bene e alla giustizia, nella misura in cui l’anima umana ospita incondizionatamente, tenta, vuole, cerca di ospitare incondizionatamente l’adesione al bene e alla giustizia, per amouriser le monde si trapassa il giogo del tempo e dello spazio, si entra in una dimensione in cui tempo e spazio non sono più curvi, ricurvati dalla gravità. Si supera tutto questo e si entra nell’Eterno, ed è il momento della Rivelazione. Ogni istante può essere rivelativo, e non è necessariamente una rivelazione fatta di parole, nel senso usuale con cui noi intendiamo il termine parole. A volte il silenzio può essere molto più rivelativo delle parole, soprattutto nel nostro tempo, che ne è così carico. Altre epoche avevano più di noi bisogno di parole. E la parola dritta, parlata, aveva una potenza molto più forte del nostro tempo. Noi siamo circondati solo da parole. A volte il silenzio può essere più evocativo.
Anche la natura può essere rivelativa, rivelativa di questo sapore dell’eterno. La poesia può esserlo, la musica, tutto ciò che apre il nostro spirito alla dimensione dell’eterno. E la rivelazione storica, direte voi, quella avvenuta duemila anni fa? Essa è importantissima, è decisiva. A mio avviso è la grammatica che ci mette in condizione, ancora una volta, di non cadere nel soggettivismo, quando sentiamo il nostro cuore fremere all’agitarsi delle fronde, di non cadere nel soggettivismo, ma di avere appunto la capacità di discernere ciò che veramente è rivelazione all’eterno, perché la rivelazione storica è proprio ciò che ci mette in condizione di leggere la natura e la storia che ci attraversano e che viviamo e di scoprire all’interno di essa ciò che veramente parla del bene, dell’amore e della giustizia. In un certo senso, la grammatica è fine a se stessa? Può dire qualcuno di conoscere bene una lingua se ne conosce bene la grammatica? Chi è così ingenuo da pensare di poter ridurre la letteratura italiana alla grammatica della lingua italiana? La grande realtà della lingua è il linguaggio comune: la grammatica è funzionale alla grande letteratura e al linguaggio comune, che a volte nei confronti della grammatica ha una funzione di oltrepassa mento. Esso non è sempre ligio nei confronti della grammatica, spesso trasgredisce. Ed è da queste trasgressioni che il linguaggio evolve. Esattamente come avviene nel campo della vita, del bios. Il linguaggio evolve attraverso trasgressioni, mutazioni, errori, fantasie che linguaggio comune e letteratura generano. La grammatica però è essenziale affinchè ci sia una lingua. Con questa dialettica tra grammatica da un lato e letteratura e linguaggio comune dall’altro, noi possiamo leggere la medesima impostazione tra la rivelazione storica e la rivelazione eterna, che in ogni istante si ha nel mondo. Il senso della vita spirituale non è un mettersi sull’attenti con atteggiamento archeologico nei confronti di fatti avvenuti duemila, tremila e chissà quanti altri migliaia di anni fa, generando peraltro un certo spaesamento rispetto al proprio tempo, al proprio spazio, vivendo sempre al passato. Il senso della vita spirituale è leggere la rivelazione di Dio qui.
Non mi dilungo a leggere le sette lettere: sette chiese, sette stirpi, sette candelabri, sette stelle, sette fiaccole accese, che sono i sette spiriti di Dio. Un libro sigillato, con quanti sigilli? Sette, naturalmente. Un agnello immolato con sette corna, sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio. Ci sono i sette angeli, davanti al trono di Dio, con sette trombe. Ci sono sette tuoni, un drago con sette teste, sette diademi, sette angeli, sette flagelli, sette colme d’oro colme dell’ira di Dio. Poi c’è una grande prostituta, seduta su una bestia scarlatta, che ha sette teste; poi c’è una città di sette tetti, di sette colli e di sette re. Quando si legge di questa città in 17, 9, si capisce subito il riferimento a Roma. C’è anche un terremoto all’interno dell’Apocalisse, in 11-13, e le persone che muoiono non sono sette, perché altrimenti sarebbe un sisma da niente, ma settemila. Ci sono sette beatitudini, all’interno dell’Apocalisse: per sette volte ricorre il termine “beato”.
Perciò in questo libro ci sono cose terribili, ma anche cose magnifiche, e la sapienza spirituale deve essere in grado di gerarchizzare, appunto, di capire quali sono le cose che vanno tenute, custodite, e quali invece quelle da cui distanziarsi. Da questo numero avrete di certo capito come mai abbiamo sette sacramenti. Nell’antichità i sacramenti non erano sette: sono stati canonizzati come sette dal Concilio di Trento. Ma perché Trento, a partire dal 1545, decise così? Proprio per questo simbolismo che in tutta la Bibbia ha importanza notevole, e che nell’Apocalisse è assai ridondante.
Noi, oltre ai sette sacramenti, abbiamo anche sette peccati capitali.
Arriviamo alle sette chiese: queste si trovano in quella Turchia dove adesso i Cristiani non esistono praticamente più. Sono Efeso, Smirne, massimi nomi biblici, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Proprio in questa zona due sacerdoti italiani sono stati uccisi poco tempo fa. Il primo, lo ricorderete, Andrea Santoro, morto il 12 febbraio 2006, e il secondo un vescovo, Luigi Padovese , il 3 giugno 2010. Il primo era in chiesa e stava pregando quando gli spararono alla nuca; il secondo invece venne decapitato a coltellate dal suo autista. Mi sembra giusto ricordare questi cristiani che hanno, probabilmente per il legame con l’Apocalisse e in genere con gli scritti biblici, deciso di andare a trascorrere la loro vita in quelle zone non tanto facili. Mi sembra giusto ricordare queste persone; io non conoscevo Andrea Santoro di persona, ma di sicuro so che per Luigi Padovese era così. Era un mio caro amico, e ciò che lo ha spinto ad andare in missione in Turchia era esattamente il grande amore di origine cristiana. Voi sapete che la Turchia, l’Asia Minore, della quale fanno parte le sette chiese di cui ora vedremo le lettere, è chiamata in un certo senso la seconda culla del Cristianesimo. La prima è la Palestina, la seconda l’attuale Turchia. Paolo nacque lì; i primi più importanti concili ecumenici furono celebrati lì. Si è però sempre trattato di un territorio “effervescente” dal punto di vista religioso, ricco di templi, di costruzioni di ogni tipo, e per questo anche in continua tensione, si legga a questo proposito la terza lettera alla città di Pergamo.
Voi sapete che Bibbia in Greco si dice Biblion, e questo perché il papiro su cui si scrivevano i libri nell’antichità arrivava in occidente soprattutto attraverso il porto di Biblos. Pergamo aveva litigato con Biblos, perché per motivi commerciali questa aveva minacciato Pergamo di non fornire più papiri. Allora Pergamo decise di fabbricarsi la carta da sé: il papiro non l’aveva, ma con la pelle di pecore e capre creò la pergamena. Se si legge questa lettera vi si trova questa espressione, si fa riferimento a Pergamo dicendo “dove Satana ha il suo trono”, versetto 2-13, e sempre nello stesso versetto dice che Pergamo è la “dimora di Satana”. Perché l’autore dell’Apocalisse ne parla così? Io mi sono servito dei Commentari dell’Apocalisse e vi ho trovato diverse interpretazioni. Quella che più mi ha convinto è di un biblista. “con l’espressione “trono di Satana” si intendeva un tempio, per la precisione quello di Asclepio, cioè il dio greco della medicina. L’Asklepèion. E perché soprattutto in quel momento aveva un grandissimo successo, tra I e II secolo, era un viavai di pellegrini.
E’ interessante leggere quello che Pierre Prejant. Egli descrive questo tempio, dicendo “il santuario propriamente detto aveva relative installazioni idrauliche. La sorgente era stata incanalata per permettere le cure con bevute e con bagni, e attorno ad esso numerose costruzioni offrivano luoghi di soggiorno, cure e incubazioni. In questo contesto vengono ad inquadrarsi le sette chiese. Prima di entrare in ambito teologico farò un’osservazione più generale. Prima di parlare di ogni singola chiesa, do l’indirizzo generale di Giovanni alle sette chiese che sono in Asia. Leggo la traduzione della Cei: “Grazie a voi è pace da colui che è, che era, e che viene, e dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, testimone fedele, primogenito dei morti e sovrano dei re della terra.” Qui ci sarebbero molte cose da dire, anche sul nome di Dio, ma non c’è tempo.
Mi soffermo invece sulle ultime parole, “il sovrano dei re della terra”, che in originale è “ò àrchon tòn basilèion tès ghès” e la traduzione è legittima. Però, traducendo così, la versione della Conferenza Episcopale fa perdere al lettore un collegamento decisivo, molto importante. Perché, sempre nel corpus giovanneo, nella versione del quarto vangelo, si usda la stessa espressione archon. Chi è l’archon? E’ colui che detiene l’Archè, colui che sta davanti, capo, capo nel più immediato senso etimologico, quello che sta in testa, la testa. Poi si può tradurre con sovrano, con principe, ma in generale è “colui che domina”, il capo, appunto. Per ben tre volte: 12 - 31, 14 - 30 e 16 - 11, usa l’ espressione o àrchon non per Dio, ma per il Suo avversario. E in questo caso, la CEI traduce “il principe di questo mondo”. Se il medesimo termine viene tradotto una volta con “sovrano”, un’altra con “principe”, innanzi tutto faccio perdere il collegamento, in secondo luogo faccio credere che “sovrano” vale di più e il “principe” di meno, e quindi non pongo una vera e propria equidistanza, un vero e proprio parallelismo, cosa che invece il testo impone di fare.
Noi quindi abbiamo un bel nodo, perché dietro l’attribuzione del termine archon a Dio oppure a Satana, abbiamo due opposte traduzioni. Quindi chi è l’archon, chi è il capo di questo mondo? Chi è il capo della politica dei politici? Chi è che tiene in mano i destini della storia? Per il vangelo di Giovanni chi comanda su questo mondo è l’avversario. Per ben tre volte dice il principe di questo mondo, ò àrchon tou kòsmou toutou, il sovrano di questo mondo è l’avversario. Per ben tre volte. E non a caso, Gesù, quando Pilato gli chiede: “Sei tu il re dei Giudei?”, risponde “Tu lo dici”. E ancora, Giovanni (18, 36) “il mio regno non è di questo mondo”. Invece l’Apocalisse dice che ò àrchon tòn basileiòn tès ghès (il capo, il sovrano dei re della terra) è Dio, in 11, 15 dice “il regno del mondo appartiene al Signore”.
Allora da un lato abbiamo Gesù che dice “il mio regno non è di questo mondo”, dall’altro (Apocalisse) abbiamo “il regno del mondo appartiene al Signore.” Due teologie della storia diverse, opposte. Il mondo è uno solo, e le sovranità che se lo contendono sono due. Da questo tema di fondo concernente il potere, si scatena la tensione, a volte anche la violenza, che attraversa il libro dell’Apocalisse. Ci sono due poteri, una lotta intestina tra questi, di cui l’Apocalisse racconta l’esito finale, che si compie nella forma di una catastrofe cosmica. Ed è per questo che noi abbiamo nel nostro significato comune di apocalisse “Apocalipse now”.
Solo un accenno, che sarebbe interessantissimo sviluppare, è la dualità, secondo l’Apocalisse, che permane anche a livello eterno: anche nell’eternità ci sarà questa lotta, tra dentro e fuori. Se si legge 22,14-15, “beati coloro che lavano le loro vesti per dare diritto all’albero della vita e attraverso le porte entrano nella città”. Poi continua “fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri, chiunque pratica la menzogna. Vediamo anche nel capitolo finale, quello della Gerusalemme Celeste, quello della consumazione finale: anche qui abbiamo la dualità dentro e fuori. E questo in contraddizione con Prima Corinzi (15, 28) , secondo la quale Dio salva tutto e tutti, il clero, secondo San Paiolo sarà effettivamente unitario, la morte non ci sarà più, sarà distrutta, e Dio sarà tutto in tutti. Secondo l’Apocalisse invece no, lo stagno eterno e di fuoco dove il diavolo e i suoi angeli bruceranno per l’eternità è eterno. E allora chi ha ragione?
Io ho volutamente ho fatto eleggere delle contraddizioni. Perché noi abbiamo due contraddizioni sulla teologia della storia. Da un lato il vangelo di Giovanni dice che chi comanda su questo mondo è l’avversario, dall’altro l’Apocalisse dice che invece è Dio. La seconda contraddizione è che secondo San Paolo si compiranno i destini duali, non ci sarà più un due, ma un uno. Ci sarà il clero: Dio sarà in tutto e in tutti. Non ci sarà più il male, né la morte, né la sofferenza. Ed è la dottrina che fece propria anche Gregorio di Nissa, e anche nel ‘900 Von Balthasar. La teoria dell’apocatastasi che però la Chiesa, a partire da Giustiniano, nel Concilio Vaticano del 1543, fu criticata come eretica. Viene invece giudicata canonica la prospettiva dualista, che si legge nell’Apocalisse, quella di uno stagno eterno, di fuoco, dove bruceranno in eterno il diavolo e tutti i suoi angeli.
E arriviamo dunque alle sette lettere. Qual è l’elemento comune di queste sette lettere? Nei capitoli 2 e 3 sono dominate dalla presenza di una minaccia. E’ sempre Pier Prejant che lo dice, colui che ha dedicato l’intera vita al libro dell’Apocalisse. Per lui il centro nevralgico di questi due capitoli è dato da questa minaccia. “Minaccia non più soltanto esterna, ma nel seno stesso delle chiese. Lì dove essa maschera insidiosamente il proprio carattere demoniaco sotto tratti apparentemente cristiani”. Il nome di questa minaccia è eresia. In particolare, gli eretici che appaiono nelle sette lettere alle chiese, in particolare nella prima, nella terza, e nella quarta, sono denominati dall’autore Nicolaiti. Infatti nella lettera di Efeso si dice: “hai questo di buono: detesti le opere dei Nicolaiti che anch’io detesto”.In realtà il verbo originale greco è misèo, odiare. Nella seconda lettera, quella a Smirne, e nella quinta, quella a Filadelfia, incontriamo un’espressione che delinea l’atmosfera polemica che attraversa tutte queste sette lettere. Perché qui si parla di “sinagoga di Satana”. Pergamo, che è la città che sta sul trono di Satana, la comunità è accusata di tollerare fedeli che mangiano carne immolata agli idoli. Trasgressori che l’autore chiama Nicolaiti. Poi c’è la lettera alla comunità di Tiatira, e qui si dice che la comunità è guidata da una donna chiamata Getzabele, di cui si dice insegni alla comunità a mangiare le carni immolate agli idoli. Le altre mostrano le medesime accuse.
Ora, la domanda da porsi è chi siano questi Nicolaiti. Gli esperti sostengono che sia inutile chiederselo. Cito un commento di Edmondo Lupieri, autore di un commento che si può trovare nella prestigiosa Fondazione Valla, Mondadori, classici greci e latini. Egli insegna Storia del Cristianesimo all’Università di Udine, e scrive: “Non sappiamo chi fossero questi Nicolaiti, né in che cosa consistesse il loro insegnamento, né men che meno le loro opere”. Qualcuno sostiene che essi si possano conoscere a partire da Clemente Alessandrino, Ireneo, anonimo pseudo Tertulliano, ma è più probabile ciò che scrive l’Oxford Dictionary of the Christian Church “non è impossibile che tutti i riferimenti ai Nicolaiti nella tradizione cristiana siano semplicemente delle deduzioni dalla Apocalisse. Sto dicendo che i primi cristiani si trovavano esattamente nella nostra stessa condizione: non sapevano chi fossero i Nicolaiti. Per capire l’identità di questi eretici, avevano come unica fonte l’Apocalisse stessa. E in base alla semplice duplice ricorrenza dei Nicolaiti all’interno di questo libro, iniziarono a sviluppare una serie di deduzioni. Una, ad esempio, sull’etimologia del nome: il fondatore di questa setta era un tale Nicola, l’unico ricorrente in tutta la Bibbia, nel capitolo sesto degli Atti, dove si parla dei sette diaconi. Uno di questi si chiamava Nicola, proselito di Antiochia, e secondo Clemente Alessandrino fu lui a fondare questa setta. Abbiamo dunque ragione di credere che questi Nicolaiti siano stati, per così dire, inventati dallo stesso autore dell’Apocalisse, per riferirsi a dei particolari Cristiani di cui noi ora dobbiamo capire l’identità. E dobbiamo capirlo perché essi hanno molto a che fare con i “Cristiani adulti” citati prima. Di cosa vengono accusati i Nicolaiti? Se ci si ferma alla lettera del testo, essi vengono accusati di due cose: di mangiare le carni immolate agli idoli, e di fornicare, cioè di non avere una morale sessuale adeguata, di violare il sesto comandamento. Tutti i commentari, però, fanno notare che in realtà l’accusa è una sola, in quanto bisogna intendere la fornicazione non in senso fisico, bensì morale. Ciò che i Nicolaiti fanno è in realtà un unico grande peccato secondo l’autore dell’Apocalisse, ed è quello di mangiare la carne immolata agli idoli. Cioè di non essere sufficientemente puri, rigorosi, dal punto di vista del loro cristianesimo, di non custodire a sufficienza la singolarità, la differenza cristiana, di indulgere troppo al compromesso, al dialogo con le altre religioni, con il tempio di Pergamo, eccetera.
Un’altra cosa che vorrei far notare prima di arrivare a parlare dell’identità dei Nicolaiti è il tono delle accuse. Ho già detto come il libro in questione presenti delle pagine vibranti, che possono generare intolleranza, violenza, aggressività. E ho detto che sarei tornato sull’espressione “sinagoga di Satana”, che si trova per ben due volte nel testo dell’Apocalisse: nella seconda e nella quinta lettera. Quest’espressione ha fatto molto male nella storia. La storia degli effetti di questa espressione è dolorosamente sanguinosa, già a partire dall’epoca patristica. L’antigiudaismo e poi l’antisemitismo si sono nutriti di quest’espressione. San Giovanni Crisostomo nelle famigerate “Omelie di Antiochia”, del 386 – 387, poteva affermare, autorizzato da questa espressione: “la sinagoga è divenuta una caverna di briganti, un rifugio di bestie”. Anche per quanto riguarda il rimprovero rivolto alla comunità di Tiatira: “ho da rimproverarvi che lasci fare a Getzabele: la donna, che si dichiara profetessa, seduce i miei servi, insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli”, cioè di non essere sufficientemente puri dal punto di vista dell’identità religiosa. “Ebbene io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, colpirò a morte i suoi figli”. Leggo un passo al riguardo di Edmondo Nupieri (pg 129 del libro Mondadori, Fondazione Valla): “Giovanni sembra voler calcare la mano definendo Getzabele “donna”, quasi a dire che la femminilità è già di per sé un segno negativo”. Il linguaggio è particolarmente duro, colui che parla minaccia di gettarla su un letto di dolore e di ucciderle i figli. In tutto il resto del Nuovo Testamento è difficile trovare una tale violenza verbale.Il linguaggio e le immagini scelte da Giovanni denunciano un’atteggiamento mentale che oggi definiamo maschilista e misogino. Voi allora capite come già nel 1920 Charles diceva che un redattore finale (lui non attribuiva tutto allo stesso autore) aveva messo le mani in questo testo, e di questo redattore finale si poteva essere sicuri che fosse stato celibe; esattamente per la sua intransigenza, arroganza, incapacità di trattare, di comprendere il genere femminile.
La cosa da notare è che queste lettere vengono messe in bocca a Cristo risorto, è lui che dice “ti sbatterò su un letto di dolore e colpirò a morte i tuoi figli”. Verrebbe da chiedersi perché i figli, cosa centrino loro, e se davvero Gesù risorto, il Gesù che noi conosciamo, quello dei quattro Vangeli, compreso il quarto, parlerebbe in questo modo. Noi d’altr’onde non dobbiamo cadere nell’eccesso opposto: dobbiamo comprendere che, sempre in queste lettere, esiste anche un tono bellissimo, perché così com’è aspro nei confronti degli avversari, così come l’autore è a volte aggressivo nei confronti di chi trasgredisce, è altrettanto tenero e dolcissimo nei confronti di chi invece segue la sua particolare modalità di intendere e di interpretare il Cristianesimo. Ne è un esempio questo passo: “Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita che sta nel Paradiso di Dio”, oppure, nella lettera a Smirne: “Ti darò la corona della vita, il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte. Pergamo: “Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto “non v’è uomo che nessuno conosce”. Tiatira: “Al vincitore darò autorità sopra le nazioni, a lui darò la stella del mattino”. Sardi: “Il vincitore sarà vestito di vesti bianche, non cancellerò il suo nome dal libro della vita”. Filadelfia: “Ti porrò come una colonna nel tempio del mio Dio, e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio”. E infine Laodicea: “Il vincitore lo farò sedere con me sul mio trono”.
Poi devo dire che nei confronti della lettera a Laodicea, sin da ragazzo, ho un particolare legame affettivo, in quanto le sue parole mi hanno sempre particolarmente colpito. In particolare mi riferisco a “ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò a lui, cenerò con lui ed egli con me”. Queste parole testimoniano grandissimo rispetto della libertà; sono parole che realmente il Cristo risorto potrebbe dire, e che realmente dice. Sta alla porta e bussa. C’è grandissimo, solenne rispetto dell’interiorità e della libertà, e poi la promessa della comunione.
Nell’ultimo passo, nella conclusione, vorrei esporre la mia tesi interpretativa, che ho intravisto in alcuni commenti e che ho radicalizzato, spero senza andare fuori strada. Chi sono dunque questi eretici, i Nicolaiti? A partire dal problema che l’autore dell’Apocalisse solleva e che per lui costituisce qualcosa di estremamente pericoloso, e cioè il consumo di carni immolate agli idoli. Il punto è: egli vuole che non si comprino e non si consumino più le carni immolate agli idoli. Però abbiamo visto che Getzabele non incitava a dei fatti fisici, tutto ciò che viene detto dev’essere inteso in senso spirituale: la prostituzione di cui si parla è venire a patti con il rigore della fede, con la sua purezza e la sua identità, macchiando queste vesti bianche, di cui l’Apocalisse è continuamente colma. L’autore vuole che non ci siano macchie sulla tua veste di cristiano, e mangiando le carni immolate agli idoli si macchia la propria coscienza, la propria identità, il tuo essere cristiano. L’autore non proibisce il consumo di carne in quanto tale, non v’è ulla a che fare con la tradizione vegetariana. Non si parla della sacralità della vita che va rispettata in ogni sua manifestazione compresa la vita animale, come altre grandissime tradizioni spirituali insegnano.
Cos’è questa carne immolata agli idoli? Nel mondo antico, un mondo peraltro che arriva a qualche generazione fa, circa un paio, la carne era molto cara: pochi si potevano permettere di mangiarla. Le proteine si prendevano dai pesci, e da altre fonti vegetali. La carne si mangiava di rado. La gente comune poteva mangiare carne solo quando nei templi, sia giudaici sia pagani, si compivano i sacrifici, soprattutto nelle grandi festività quando i sacrifici erano tanti. Le famiglie dei sacerdoti, a cui di per sé la carne era destinata, mancando la possibilità di conservarla, la mettevano sul mercato. Queta notizia è presente in diversi commentari, uno in particolare di un padre domenicano, un esegeta irlandese, che dice: “la carne era troppo costosa per la maggior parte delle persone, ed era disponibile solo durante le grandi feste giudaiche o pagane, quando venivano offerti numerosi sacrifici”. E quindi avveniva che i cristiani, anche loro, andavano al tempio a comprare questa carne per poter dare ai propri figli un piatto nutriente che per vari mesi non potevano permettersi. Era qualcosa di molto pratico. E come ragionavano questi cristiani, come la donna a capo della comunità di Tiatira? Donna che l’autore definisce Getzabele con chiaro riferimento polemico, in quanto era la moglie di re Acab che indusse gli israeleti all’idolatria. Era molto probabile infatti che ella non si chiamasse Getzabele, che era un nome ebraico, ma che avesse un nome greco, come Lidia, Irene o Caterina. Cosa diceva questa profetessa? Gli altri sapevano che c’era un Dio solo e che gli idoli non esistono, che tutto ciò che esiste in natura viene dall’unico Dio. Omnia munda mundis, la famosa frase di Fra Cristoforo al padre guardiano. Tutto questo loro lo sapevano. Essi sapevano che gli idoli non esistevano e che quelle carni erano pure, e non volevano privare i figli di questa possibilità di nutrirsi. Noi sappiamo che le cose andavano così perché ne parla approfonditamente lo stesso San Paolo. Se si legge Prima Corinzi (capitoli 8 e 10) e lettera ai Romani (cap 14), si ritrovano esattamente le grandi discussioni sugli idolotiti. E San Paolo dimostra una posizione di compromesso (prima Corinzi 8,8): “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio. Se non mangiamo, veniamo a mancare di qualcosa, se mangiamo, ne abbiamo un vantaggio”. Paolo è consapevole che ciò che fa di un uomo un cristiano è la dimensione spirituale, e non un alimento. Poi però aggiunge: “Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se un cibo scandalizza un mio fratello, non mangerò più carne per non dargli scandalo”. Di per sé quindi si può mangiare, se non si ha a che fare con fratelli intellettualmente, spiritualmente deboli.
A questo punto, quindi, chi sono i Nicolaiti? Chi sono gli eretici contro cui si scaglia in modo così brutale l’autore dell’Apocalisse? Ecco Prejant: “I Cristiani eretici di cui si tratta sono forse quanto gli idolotiti eredi di Paolo”. Perché il nucleo dell’insegnamento paolino è esattamente la libertà spirituale, nella consapevolezza teologica che tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e a Dio appartiene. E infatti sempre nella prima lettera ai Corinzi, dove si discute la questione degli idolotiti si legge questo versetto, uno dei più belli di tutto il Nuovo Testamento: “L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (prima Corinzi 2, 15). Letteralmente Paolo usa il termine ò pneumatikòs, lo “spirit-uale”.
La cosa che si può constatare dall’enigmatica espressione in Apocalisse 2, 24, perché nella lettera a Tiatira si parla delle “profondità di Satana”, tà abathèa tou Satanà. Se si tiene presente sempre la prima Corinzi, noi possiamo comprendere questa affermazione, perché qui si dice “lo spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio”, tà abathèa tou Theou. Dunque i seguaci radicali di Paolo mangiavano tranquillamente le carni immolate agli idoli, e, inoltre, con questa libertà spirituale, avevano la percezione di poter giudicare ogni cosa, anche le profondità di Dio. E, per esempio, di fronte alle pagine della Bibbia ebraica, poter dire “questa pagina è terribile: non la posso accettare!”. Quando si dice “beato chi prenderà i tuoi piccoli in Babilonia devastatrice e sfracellerà il loro tenero cranio contro la pietra”. Ecco, l’uomo spirituale vede queste cose e capisce che questo tipo di lettera non è tale da contenere lo spirito. Ne prende le distanze, mette in campo un’esegesi allegorica, ma non aderirà a questa lettera che di per sé è mostruosa.
L’autore dell’Apocalisse, quindi, fa ironia sulla predicazione di questa profetessa: dice che in questo caso non si ha a che fare con le profondità di Dio, bensì con quelle di Satana. Perché per lui il vero contenuto del messaggio spirituale di questa donna è esattamente la perversione, non certo l’altezza e la libertà dello spirito.
Concludo: prima conclusione. I cristiani adulti, per riprendere l’espressione citata all’inizio, fin dal tempo del nuovo testamento, furono chiamati eretici dai loro correligionari meno progrediti. Secondo, la storia, alla fine, ha sempre dato ragione a chi usa effettivamente la ragione. Perché il non preoccuparsi delle carni immolate agli idoli è esattamente quello che oggi facciamo tutti. Quello che per l’autore dell’Apocalisse era articulus stantis aut cadentis fidei catholici, cioè l’articolo in base al quale sta o cade la fede cattolica, quello che aveva un’importanza così decisiva, ai nostri giorni è semplicemente un relitto archeologico, non esiste più. Ma non solo in questi giorni, bensì anche molto presto in tutta la storia della Chiesa. Quello che invece era l’articolo fondamentale, per l’appunto il più avanzato nel cristianesimo di allora, cioè la libertà spirituale, la capacità di essere uomini spirituali che giudicano ogni cosa, è ancora il vertice da cui tutto promana e a cui tutto deve tornare.
Scritto da Giulia il agosto 23 2011 10:22:16
La prima cosa che vorrei dire la prendo alla larga, voi capirete perchè. Esiste un testo, uno dei più belli, del Vaticano II “ Unitatis redintegratio”, numero 11, secondo cui esiste una gerarchia delle verità. Le verità di fede non sono tutte uguali: un conto è la natura divina di Gesù, un conto l’infallibilità del papa, un conto è la natura umana di Gesù; un conto è l’assunzione di Maria in cielo in corpo e in anima. Non hanno obbiettivamente lo stesso peso teologico e spirituale. La stessa cosa si può dire per i libri della Bibbia: anche questi, i 73 che formano il canone biblico, non hanno tutti lo stesso peso teologico e spirituale. Un conto è parlare, per esempio, del libro della Genesi, e un conto è parlare di essere Neemia. Ecco, i passi di questo libro potrebbero benissimo stare in un programma tra i più razzisti e xenofobi che la storia abbia mai ospitato. La stessa cosa vale per il Nuovo Testamento: un conto è il vangelo di Marco, un conto la lettera di Giuda. Essi non hanno la stessa valenza teologica e spirituale. E la stessa cosa vale per le lettere paoline: un conto è Romani, un conto è prima ai Corinzi; un altro ancora sono le lettere ai Tessalonicesi. E anche lì, nella prima lettera ai Tessalonicesi di Paolo, si possono trovare cose che sarebbe meglio non fossero state scritte, pesanti da accettare. Mi riferisco soprattutto a quel passo, dove ci sono gli ebrei come nemici di Dio che odiano tutti gli uomini.
E così anche all’interno del corpus giovanneo, di cui l’Apocalisse fa parte. Quindi un conto è il vangelo di Giovanni, un conto l’Apocalisse. Perche? Perché l’Apocalisse è un libro strano, un libro che necessita intermediazione, quasi una difesa, come una specie di maschera da saldatore. Avete presente i saldatori, quando saldano, che si devono difendere da queste scintille che potrebbero ledere la vista. Ecco, le espressioni che emergono da questo libro del Nuovo Testamento possono fare male. Questo, ribadisco, secondo la mia opinione. Possono generare intolleranza, aggressività, violenza.
Il Cristianesimo ha conosciuto fenomeni di intolleranza, aggressività e violenza. Come mai? A mio avviso anche a causa di alcune indagini bibliche, anche a causa di alcune pagine dell’Apocalisse. Non è un caso peraltro che il testo dell’Apocalisse entrò tardi a far parte del canone. E soprattutto nelle crisi d’Oriente, quelle, diciamo, più greche, quindi più attente alla dimensione umanistica. Solamente nel V secolo le chiese di Siria e di Palestina accettarono l’Apocalisse nei termini del canone.
Pensate che uno dei più grandi studiosi di questo libro, si chiamava Robert R. Charles ed era un irlandese, ha scritto un commento, che rimane punto di riferimento per tutti gli studiosi. Questo eminente studioso anglicano, che dedicò all’Apocalisse due volumi grossi così, giunse ad ipotizzare l’opera di due autori. Un redattore vero e proprio e un redattore finale che Robert R. Charles definiva fanatico, stupido, ignorante, incapace e, aggiungeva, di sicuro celibe. Perché se si legge l’Apocalisse con attenzione si vede che ci sono anche punte di misoginia. Quello che intendo dire è che l’Apocalisse non è un libro “puro”, secondo me, è uno dei meno evangelici del Nuovo Testamento.
Prima di entrare in medias res, due citazioni.
Nietszche, che probabilmente non era ben disposto nei confronti del cristianesimo, scrive in “Genealogia della morale”: “l’Apocalisse è la più caotica di tutte le invettive scritte che la vendetta abbia sulla coscienza.” E’ impossibile leggere in maniera avvertita, critica, l’Apocalisse senza sentire un tono di odio e, a tratti, di compiacimento per questo odio.
E perfino un cristiano, un gran cristiano, come Nikolai Berdjaev dice che anche nell’Apocalisse è presente un’evidente “escatologia di vendetta”. Si legga, per esempio, il cap 19, in cui l’angelo dice a tutti gli uccelli rapaci di radunarsi e straziare le carni e così via. Lo troverete un testo un po’ stupefacente.
Ora, ho richiamato la gerarchia delle verità: io sono convinto che la fede matura e consapevole, la fede critica, capace di rendere davvero conto di sé stessa, oggi deve procedere ponendo il proprio ruolo interiore nella gerarchia delle verità. E, conseguentemente, anche nei testi biblici. Oggi una fede apprezzata criticamente, capace di resistere all’imperare, all’avanzare del nichilismo deve operare criticamente all’interno del cosiddetto depositum fidei e gerarchizzare, per capire veramente che cosa è essenziale e che cosa è meno essenziale. E solo così, solo con questa operazione critica, la fede può oggi, a mio avviso, sopravvivere.
Secondo punto, seconda tappa di avvicinamento alle sette lettere. Ho parlato di fede matura, potrei anche dire, la fede di un cattolico adulto. Chi usò quest’espressione? Questa fu un’espressione usata a suo tempo da Romano Prodi, che gli costò molto cara. Cito dall’intervista nel quotidiano cattolico francese La Croix (corrispettivo di Avvenire), del 16 maggio 2008 (il governo, il secondo governo Prodi, era caduto l’8 maggio 2008), dice: “Non mi è stata mai perdonata questa frase. Sono un cattolico adulto. Con la presidenza della Conferenza Episcopale ho avuto l’impressione di scontrarmi con un’opposizione politica”.
Ma che cos’è una fede matura? In che senso si parla di cattolico adulto? A mio avviso lo si è evitando due estremi: il primo, l’estremo di prendere, per così dire, per oro colato tutto quello che sta scritto nel Catechismo dal primo all’ultimo articolo, tutto quello che sta scritto nelle encicliche dalla prima all’ultima parola, tutto quello che papi, cardinali etc dicono, e allo stesso modo la Bibbia, prendendo per verità assoluta tutto quello che è contenuto nei testi biblici. Diciamo che il primo pericolo è quello dell’intransigenza cattolica, il secondo quello dell’intransigenza protestante. Questo è l’estremo di chi imposta la propria vita di fede alla luce del principio di autorità.
L’altro estremo, che è pure deleterio e che quindi a mio avviso è sempre da evitare, è il soggettivismo della fede fai da te. Di chi si pone a piacimento di fronte a duemila anni di tradizione, di dogmatica, di spiritualità, di ricerca, e senza studiare, approfondire, conoscere, così a piacimento, prende e riformula a seconda dei propri interessi, dei propri comodi e, a volte, anche dei propri capricci.
Tra questi due estremi, la fede matura di un cattolico adulto, l’unica, secondo me, che può continuare a sopravvivere adeguatamente anche nel nostro mondo, che ha futuro, è la fede che pensa, studia, collega, ragiona per cercare la verità. La verità come bene, la verità che è Dio, che è al di là della verità dottrinale, al di là delle formule, al di là anche delle pagine bibliche.
Cercare di compiere questo movimento di “responsabilità spirituale”, perché è proprio questo che il cattolico adulto deve giungere ad essere: responsabile dal punto di vista spirituale. Il principio di responsabilità di Hans Jonas, che egli voleva porre nella mentalità, nel cuore degli uomini contemporanei, in rapporto al mondo, all’ecologia, al pianeta e agli altri esseri umani, questo stesso principio di responsabilità va posto nel cuore e nella mente dei credenti, nel confronto del loro rapporto con Dio, con la Chiesa, con la grande e sublime tradizione che essa ci porta. Senza questa tradizione noi credenti non saremmo giunti dove siamo ora, e quindi noi dobbiamo assolutamente essere innestati in questa tradizione, perché possa essere dinamismo e non staticità, perché possa avere lo stesso movimento che ha la realtà, cioè l’evoluzione. Perché questo è l’evoluzione: la legge mediante cui il mondo respira, e tutto ciò che non evolve muore. Affinché la fede possa giungere a vivere lo stesso respiro cosmico dell’evoluzione, deve essere sì innestata nella tradizione ma al contempo avere la capacità di distanziarsene. Questo è il movimento della responsabilità spirituale. Esercitando questo movimento si giunge, e non può che essere così, leggendo con attenzione il Nuovo Testamento, gli scritti dei Padri della Chiesa, il Catechismo, e così tutto il grande portato della grande tradizione, non si può non giungere ad una semplice, chiarissima conclusione: che il Cristianesimo è dottrina, è pratica dell’amore. Filosofia dell’amore: visione della vita, dell’essere, della natura, della storia alla luce del primato dell’amore. E che essere Cristiani significa compiere ciò che è grande. Teillhard de Chardin diceva, con l’espressione amouriser le monde, “amorizzare il Mondo”. E’ semplicemente questo ciò che un Cristiano deve fare, e in base a questo, eccoci giunti alla prospettiva in base alla quale gerarchizzare in modo non soggettivo, per non sfociare nel pericolo del capriccio personale, della voglia personale. Occorre oggettività per poter gerarchizzare all’interno di questo patrimonio dottrinale che contiene prospettive contraddittorie e differenti. E qual è il criterio con cui mi posso muovere? Semplice: l’amore.
Con questo criterio dell’amore il senso del messaggio cristiano, per cui io mi sono accostato ad Apocalisse (1, 2, 3), esporrò i risultati di questo mio approccio.
Apocalisse. La prima cosa da dire, come certo saprete, è il significato del termine. Nel significato comune, se voi uscite per strada e lo chiedete al primo che passa, vi dirà che significa “catastrofe”, “rovina totale”. Ebbene, non è immediatamente il significato biblico. Il significato biblico è “rivelazione”, quindi rimanda ad una rivelazione. Qui si potrebbe aprire un bel discorso su cosa significhi rivelazione, come intendere la rivelazione di Dio, perché vi sono diverse teologie della rivelazione. Ma sarebbe un ragionamento troppo lungo. Io vorrei poter esprimere come io intendo questa rivelazione: la mia idea di Apocalisse rivelazione è molto semplice. La rivelazione avviene sempre, in ogni istante, nel tempo e nello spazio, nella misura in cui il tempo e lo spazio si aprono alla dimensione dell’amore, alla dimensione del bene, alla dimensione della giustizia. Nella misura in cui, con tutte le proprie forze, con tutto il proprio cuore, con tutta la propria mente, si attua nell’anima umana la dedizione al bene e alla giustizia, nella misura in cui l’anima umana ospita incondizionatamente, tenta, vuole, cerca di ospitare incondizionatamente l’adesione al bene e alla giustizia, per amouriser le monde si trapassa il giogo del tempo e dello spazio, si entra in una dimensione in cui tempo e spazio non sono più curvi, ricurvati dalla gravità. Si supera tutto questo e si entra nell’Eterno, ed è il momento della Rivelazione. Ogni istante può essere rivelativo, e non è necessariamente una rivelazione fatta di parole, nel senso usuale con cui noi intendiamo il termine parole. A volte il silenzio può essere molto più rivelativo delle parole, soprattutto nel nostro tempo, che ne è così carico. Altre epoche avevano più di noi bisogno di parole. E la parola dritta, parlata, aveva una potenza molto più forte del nostro tempo. Noi siamo circondati solo da parole. A volte il silenzio può essere più evocativo.
Anche la natura può essere rivelativa, rivelativa di questo sapore dell’eterno. La poesia può esserlo, la musica, tutto ciò che apre il nostro spirito alla dimensione dell’eterno. E la rivelazione storica, direte voi, quella avvenuta duemila anni fa? Essa è importantissima, è decisiva. A mio avviso è la grammatica che ci mette in condizione, ancora una volta, di non cadere nel soggettivismo, quando sentiamo il nostro cuore fremere all’agitarsi delle fronde, di non cadere nel soggettivismo, ma di avere appunto la capacità di discernere ciò che veramente è rivelazione all’eterno, perché la rivelazione storica è proprio ciò che ci mette in condizione di leggere la natura e la storia che ci attraversano e che viviamo e di scoprire all’interno di essa ciò che veramente parla del bene, dell’amore e della giustizia. In un certo senso, la grammatica è fine a se stessa? Può dire qualcuno di conoscere bene una lingua se ne conosce bene la grammatica? Chi è così ingenuo da pensare di poter ridurre la letteratura italiana alla grammatica della lingua italiana? La grande realtà della lingua è il linguaggio comune: la grammatica è funzionale alla grande letteratura e al linguaggio comune, che a volte nei confronti della grammatica ha una funzione di oltrepassa mento. Esso non è sempre ligio nei confronti della grammatica, spesso trasgredisce. Ed è da queste trasgressioni che il linguaggio evolve. Esattamente come avviene nel campo della vita, del bios. Il linguaggio evolve attraverso trasgressioni, mutazioni, errori, fantasie che linguaggio comune e letteratura generano. La grammatica però è essenziale affinchè ci sia una lingua. Con questa dialettica tra grammatica da un lato e letteratura e linguaggio comune dall’altro, noi possiamo leggere la medesima impostazione tra la rivelazione storica e la rivelazione eterna, che in ogni istante si ha nel mondo. Il senso della vita spirituale non è un mettersi sull’attenti con atteggiamento archeologico nei confronti di fatti avvenuti duemila, tremila e chissà quanti altri migliaia di anni fa, generando peraltro un certo spaesamento rispetto al proprio tempo, al proprio spazio, vivendo sempre al passato. Il senso della vita spirituale è leggere la rivelazione di Dio qui.
Non mi dilungo a leggere le sette lettere: sette chiese, sette stirpi, sette candelabri, sette stelle, sette fiaccole accese, che sono i sette spiriti di Dio. Un libro sigillato, con quanti sigilli? Sette, naturalmente. Un agnello immolato con sette corna, sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio. Ci sono i sette angeli, davanti al trono di Dio, con sette trombe. Ci sono sette tuoni, un drago con sette teste, sette diademi, sette angeli, sette flagelli, sette colme d’oro colme dell’ira di Dio. Poi c’è una grande prostituta, seduta su una bestia scarlatta, che ha sette teste; poi c’è una città di sette tetti, di sette colli e di sette re. Quando si legge di questa città in 17, 9, si capisce subito il riferimento a Roma. C’è anche un terremoto all’interno dell’Apocalisse, in 11-13, e le persone che muoiono non sono sette, perché altrimenti sarebbe un sisma da niente, ma settemila. Ci sono sette beatitudini, all’interno dell’Apocalisse: per sette volte ricorre il termine “beato”.
Perciò in questo libro ci sono cose terribili, ma anche cose magnifiche, e la sapienza spirituale deve essere in grado di gerarchizzare, appunto, di capire quali sono le cose che vanno tenute, custodite, e quali invece quelle da cui distanziarsi. Da questo numero avrete di certo capito come mai abbiamo sette sacramenti. Nell’antichità i sacramenti non erano sette: sono stati canonizzati come sette dal Concilio di Trento. Ma perché Trento, a partire dal 1545, decise così? Proprio per questo simbolismo che in tutta la Bibbia ha importanza notevole, e che nell’Apocalisse è assai ridondante.
Noi, oltre ai sette sacramenti, abbiamo anche sette peccati capitali.
Arriviamo alle sette chiese: queste si trovano in quella Turchia dove adesso i Cristiani non esistono praticamente più. Sono Efeso, Smirne, massimi nomi biblici, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Proprio in questa zona due sacerdoti italiani sono stati uccisi poco tempo fa. Il primo, lo ricorderete, Andrea Santoro, morto il 12 febbraio 2006, e il secondo un vescovo, Luigi Padovese , il 3 giugno 2010. Il primo era in chiesa e stava pregando quando gli spararono alla nuca; il secondo invece venne decapitato a coltellate dal suo autista. Mi sembra giusto ricordare questi cristiani che hanno, probabilmente per il legame con l’Apocalisse e in genere con gli scritti biblici, deciso di andare a trascorrere la loro vita in quelle zone non tanto facili. Mi sembra giusto ricordare queste persone; io non conoscevo Andrea Santoro di persona, ma di sicuro so che per Luigi Padovese era così. Era un mio caro amico, e ciò che lo ha spinto ad andare in missione in Turchia era esattamente il grande amore di origine cristiana. Voi sapete che la Turchia, l’Asia Minore, della quale fanno parte le sette chiese di cui ora vedremo le lettere, è chiamata in un certo senso la seconda culla del Cristianesimo. La prima è la Palestina, la seconda l’attuale Turchia. Paolo nacque lì; i primi più importanti concili ecumenici furono celebrati lì. Si è però sempre trattato di un territorio “effervescente” dal punto di vista religioso, ricco di templi, di costruzioni di ogni tipo, e per questo anche in continua tensione, si legga a questo proposito la terza lettera alla città di Pergamo.
Voi sapete che Bibbia in Greco si dice Biblion, e questo perché il papiro su cui si scrivevano i libri nell’antichità arrivava in occidente soprattutto attraverso il porto di Biblos. Pergamo aveva litigato con Biblos, perché per motivi commerciali questa aveva minacciato Pergamo di non fornire più papiri. Allora Pergamo decise di fabbricarsi la carta da sé: il papiro non l’aveva, ma con la pelle di pecore e capre creò la pergamena. Se si legge questa lettera vi si trova questa espressione, si fa riferimento a Pergamo dicendo “dove Satana ha il suo trono”, versetto 2-13, e sempre nello stesso versetto dice che Pergamo è la “dimora di Satana”. Perché l’autore dell’Apocalisse ne parla così? Io mi sono servito dei Commentari dell’Apocalisse e vi ho trovato diverse interpretazioni. Quella che più mi ha convinto è di un biblista. “con l’espressione “trono di Satana” si intendeva un tempio, per la precisione quello di Asclepio, cioè il dio greco della medicina. L’Asklepèion. E perché soprattutto in quel momento aveva un grandissimo successo, tra I e II secolo, era un viavai di pellegrini.
E’ interessante leggere quello che Pierre Prejant. Egli descrive questo tempio, dicendo “il santuario propriamente detto aveva relative installazioni idrauliche. La sorgente era stata incanalata per permettere le cure con bevute e con bagni, e attorno ad esso numerose costruzioni offrivano luoghi di soggiorno, cure e incubazioni. In questo contesto vengono ad inquadrarsi le sette chiese. Prima di entrare in ambito teologico farò un’osservazione più generale. Prima di parlare di ogni singola chiesa, do l’indirizzo generale di Giovanni alle sette chiese che sono in Asia. Leggo la traduzione della Cei: “Grazie a voi è pace da colui che è, che era, e che viene, e dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, testimone fedele, primogenito dei morti e sovrano dei re della terra.” Qui ci sarebbero molte cose da dire, anche sul nome di Dio, ma non c’è tempo.
Mi soffermo invece sulle ultime parole, “il sovrano dei re della terra”, che in originale è “ò àrchon tòn basilèion tès ghès” e la traduzione è legittima. Però, traducendo così, la versione della Conferenza Episcopale fa perdere al lettore un collegamento decisivo, molto importante. Perché, sempre nel corpus giovanneo, nella versione del quarto vangelo, si usda la stessa espressione archon. Chi è l’archon? E’ colui che detiene l’Archè, colui che sta davanti, capo, capo nel più immediato senso etimologico, quello che sta in testa, la testa. Poi si può tradurre con sovrano, con principe, ma in generale è “colui che domina”, il capo, appunto. Per ben tre volte: 12 - 31, 14 - 30 e 16 - 11, usa l’ espressione o àrchon non per Dio, ma per il Suo avversario. E in questo caso, la CEI traduce “il principe di questo mondo”. Se il medesimo termine viene tradotto una volta con “sovrano”, un’altra con “principe”, innanzi tutto faccio perdere il collegamento, in secondo luogo faccio credere che “sovrano” vale di più e il “principe” di meno, e quindi non pongo una vera e propria equidistanza, un vero e proprio parallelismo, cosa che invece il testo impone di fare.
Noi quindi abbiamo un bel nodo, perché dietro l’attribuzione del termine archon a Dio oppure a Satana, abbiamo due opposte traduzioni. Quindi chi è l’archon, chi è il capo di questo mondo? Chi è il capo della politica dei politici? Chi è che tiene in mano i destini della storia? Per il vangelo di Giovanni chi comanda su questo mondo è l’avversario. Per ben tre volte dice il principe di questo mondo, ò àrchon tou kòsmou toutou, il sovrano di questo mondo è l’avversario. Per ben tre volte. E non a caso, Gesù, quando Pilato gli chiede: “Sei tu il re dei Giudei?”, risponde “Tu lo dici”. E ancora, Giovanni (18, 36) “il mio regno non è di questo mondo”. Invece l’Apocalisse dice che ò àrchon tòn basileiòn tès ghès (il capo, il sovrano dei re della terra) è Dio, in 11, 15 dice “il regno del mondo appartiene al Signore”.
Allora da un lato abbiamo Gesù che dice “il mio regno non è di questo mondo”, dall’altro (Apocalisse) abbiamo “il regno del mondo appartiene al Signore.” Due teologie della storia diverse, opposte. Il mondo è uno solo, e le sovranità che se lo contendono sono due. Da questo tema di fondo concernente il potere, si scatena la tensione, a volte anche la violenza, che attraversa il libro dell’Apocalisse. Ci sono due poteri, una lotta intestina tra questi, di cui l’Apocalisse racconta l’esito finale, che si compie nella forma di una catastrofe cosmica. Ed è per questo che noi abbiamo nel nostro significato comune di apocalisse “Apocalipse now”.
Solo un accenno, che sarebbe interessantissimo sviluppare, è la dualità, secondo l’Apocalisse, che permane anche a livello eterno: anche nell’eternità ci sarà questa lotta, tra dentro e fuori. Se si legge 22,14-15, “beati coloro che lavano le loro vesti per dare diritto all’albero della vita e attraverso le porte entrano nella città”. Poi continua “fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri, chiunque pratica la menzogna. Vediamo anche nel capitolo finale, quello della Gerusalemme Celeste, quello della consumazione finale: anche qui abbiamo la dualità dentro e fuori. E questo in contraddizione con Prima Corinzi (15, 28) , secondo la quale Dio salva tutto e tutti, il clero, secondo San Paiolo sarà effettivamente unitario, la morte non ci sarà più, sarà distrutta, e Dio sarà tutto in tutti. Secondo l’Apocalisse invece no, lo stagno eterno e di fuoco dove il diavolo e i suoi angeli bruceranno per l’eternità è eterno. E allora chi ha ragione?
Io ho volutamente ho fatto eleggere delle contraddizioni. Perché noi abbiamo due contraddizioni sulla teologia della storia. Da un lato il vangelo di Giovanni dice che chi comanda su questo mondo è l’avversario, dall’altro l’Apocalisse dice che invece è Dio. La seconda contraddizione è che secondo San Paolo si compiranno i destini duali, non ci sarà più un due, ma un uno. Ci sarà il clero: Dio sarà in tutto e in tutti. Non ci sarà più il male, né la morte, né la sofferenza. Ed è la dottrina che fece propria anche Gregorio di Nissa, e anche nel ‘900 Von Balthasar. La teoria dell’apocatastasi che però la Chiesa, a partire da Giustiniano, nel Concilio Vaticano del 1543, fu criticata come eretica. Viene invece giudicata canonica la prospettiva dualista, che si legge nell’Apocalisse, quella di uno stagno eterno, di fuoco, dove bruceranno in eterno il diavolo e tutti i suoi angeli.
E arriviamo dunque alle sette lettere. Qual è l’elemento comune di queste sette lettere? Nei capitoli 2 e 3 sono dominate dalla presenza di una minaccia. E’ sempre Pier Prejant che lo dice, colui che ha dedicato l’intera vita al libro dell’Apocalisse. Per lui il centro nevralgico di questi due capitoli è dato da questa minaccia. “Minaccia non più soltanto esterna, ma nel seno stesso delle chiese. Lì dove essa maschera insidiosamente il proprio carattere demoniaco sotto tratti apparentemente cristiani”. Il nome di questa minaccia è eresia. In particolare, gli eretici che appaiono nelle sette lettere alle chiese, in particolare nella prima, nella terza, e nella quarta, sono denominati dall’autore Nicolaiti. Infatti nella lettera di Efeso si dice: “hai questo di buono: detesti le opere dei Nicolaiti che anch’io detesto”.In realtà il verbo originale greco è misèo, odiare. Nella seconda lettera, quella a Smirne, e nella quinta, quella a Filadelfia, incontriamo un’espressione che delinea l’atmosfera polemica che attraversa tutte queste sette lettere. Perché qui si parla di “sinagoga di Satana”. Pergamo, che è la città che sta sul trono di Satana, la comunità è accusata di tollerare fedeli che mangiano carne immolata agli idoli. Trasgressori che l’autore chiama Nicolaiti. Poi c’è la lettera alla comunità di Tiatira, e qui si dice che la comunità è guidata da una donna chiamata Getzabele, di cui si dice insegni alla comunità a mangiare le carni immolate agli idoli. Le altre mostrano le medesime accuse.
Ora, la domanda da porsi è chi siano questi Nicolaiti. Gli esperti sostengono che sia inutile chiederselo. Cito un commento di Edmondo Lupieri, autore di un commento che si può trovare nella prestigiosa Fondazione Valla, Mondadori, classici greci e latini. Egli insegna Storia del Cristianesimo all’Università di Udine, e scrive: “Non sappiamo chi fossero questi Nicolaiti, né in che cosa consistesse il loro insegnamento, né men che meno le loro opere”. Qualcuno sostiene che essi si possano conoscere a partire da Clemente Alessandrino, Ireneo, anonimo pseudo Tertulliano, ma è più probabile ciò che scrive l’Oxford Dictionary of the Christian Church “non è impossibile che tutti i riferimenti ai Nicolaiti nella tradizione cristiana siano semplicemente delle deduzioni dalla Apocalisse. Sto dicendo che i primi cristiani si trovavano esattamente nella nostra stessa condizione: non sapevano chi fossero i Nicolaiti. Per capire l’identità di questi eretici, avevano come unica fonte l’Apocalisse stessa. E in base alla semplice duplice ricorrenza dei Nicolaiti all’interno di questo libro, iniziarono a sviluppare una serie di deduzioni. Una, ad esempio, sull’etimologia del nome: il fondatore di questa setta era un tale Nicola, l’unico ricorrente in tutta la Bibbia, nel capitolo sesto degli Atti, dove si parla dei sette diaconi. Uno di questi si chiamava Nicola, proselito di Antiochia, e secondo Clemente Alessandrino fu lui a fondare questa setta. Abbiamo dunque ragione di credere che questi Nicolaiti siano stati, per così dire, inventati dallo stesso autore dell’Apocalisse, per riferirsi a dei particolari Cristiani di cui noi ora dobbiamo capire l’identità. E dobbiamo capirlo perché essi hanno molto a che fare con i “Cristiani adulti” citati prima. Di cosa vengono accusati i Nicolaiti? Se ci si ferma alla lettera del testo, essi vengono accusati di due cose: di mangiare le carni immolate agli idoli, e di fornicare, cioè di non avere una morale sessuale adeguata, di violare il sesto comandamento. Tutti i commentari, però, fanno notare che in realtà l’accusa è una sola, in quanto bisogna intendere la fornicazione non in senso fisico, bensì morale. Ciò che i Nicolaiti fanno è in realtà un unico grande peccato secondo l’autore dell’Apocalisse, ed è quello di mangiare la carne immolata agli idoli. Cioè di non essere sufficientemente puri, rigorosi, dal punto di vista del loro cristianesimo, di non custodire a sufficienza la singolarità, la differenza cristiana, di indulgere troppo al compromesso, al dialogo con le altre religioni, con il tempio di Pergamo, eccetera.
Un’altra cosa che vorrei far notare prima di arrivare a parlare dell’identità dei Nicolaiti è il tono delle accuse. Ho già detto come il libro in questione presenti delle pagine vibranti, che possono generare intolleranza, violenza, aggressività. E ho detto che sarei tornato sull’espressione “sinagoga di Satana”, che si trova per ben due volte nel testo dell’Apocalisse: nella seconda e nella quinta lettera. Quest’espressione ha fatto molto male nella storia. La storia degli effetti di questa espressione è dolorosamente sanguinosa, già a partire dall’epoca patristica. L’antigiudaismo e poi l’antisemitismo si sono nutriti di quest’espressione. San Giovanni Crisostomo nelle famigerate “Omelie di Antiochia”, del 386 – 387, poteva affermare, autorizzato da questa espressione: “la sinagoga è divenuta una caverna di briganti, un rifugio di bestie”. Anche per quanto riguarda il rimprovero rivolto alla comunità di Tiatira: “ho da rimproverarvi che lasci fare a Getzabele: la donna, che si dichiara profetessa, seduce i miei servi, insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli”, cioè di non essere sufficientemente puri dal punto di vista dell’identità religiosa. “Ebbene io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, colpirò a morte i suoi figli”. Leggo un passo al riguardo di Edmondo Nupieri (pg 129 del libro Mondadori, Fondazione Valla): “Giovanni sembra voler calcare la mano definendo Getzabele “donna”, quasi a dire che la femminilità è già di per sé un segno negativo”. Il linguaggio è particolarmente duro, colui che parla minaccia di gettarla su un letto di dolore e di ucciderle i figli. In tutto il resto del Nuovo Testamento è difficile trovare una tale violenza verbale.Il linguaggio e le immagini scelte da Giovanni denunciano un’atteggiamento mentale che oggi definiamo maschilista e misogino. Voi allora capite come già nel 1920 Charles diceva che un redattore finale (lui non attribuiva tutto allo stesso autore) aveva messo le mani in questo testo, e di questo redattore finale si poteva essere sicuri che fosse stato celibe; esattamente per la sua intransigenza, arroganza, incapacità di trattare, di comprendere il genere femminile.
La cosa da notare è che queste lettere vengono messe in bocca a Cristo risorto, è lui che dice “ti sbatterò su un letto di dolore e colpirò a morte i tuoi figli”. Verrebbe da chiedersi perché i figli, cosa centrino loro, e se davvero Gesù risorto, il Gesù che noi conosciamo, quello dei quattro Vangeli, compreso il quarto, parlerebbe in questo modo. Noi d’altr’onde non dobbiamo cadere nell’eccesso opposto: dobbiamo comprendere che, sempre in queste lettere, esiste anche un tono bellissimo, perché così com’è aspro nei confronti degli avversari, così come l’autore è a volte aggressivo nei confronti di chi trasgredisce, è altrettanto tenero e dolcissimo nei confronti di chi invece segue la sua particolare modalità di intendere e di interpretare il Cristianesimo. Ne è un esempio questo passo: “Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita che sta nel Paradiso di Dio”, oppure, nella lettera a Smirne: “Ti darò la corona della vita, il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte. Pergamo: “Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto “non v’è uomo che nessuno conosce”. Tiatira: “Al vincitore darò autorità sopra le nazioni, a lui darò la stella del mattino”. Sardi: “Il vincitore sarà vestito di vesti bianche, non cancellerò il suo nome dal libro della vita”. Filadelfia: “Ti porrò come una colonna nel tempio del mio Dio, e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio”. E infine Laodicea: “Il vincitore lo farò sedere con me sul mio trono”.
Poi devo dire che nei confronti della lettera a Laodicea, sin da ragazzo, ho un particolare legame affettivo, in quanto le sue parole mi hanno sempre particolarmente colpito. In particolare mi riferisco a “ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò a lui, cenerò con lui ed egli con me”. Queste parole testimoniano grandissimo rispetto della libertà; sono parole che realmente il Cristo risorto potrebbe dire, e che realmente dice. Sta alla porta e bussa. C’è grandissimo, solenne rispetto dell’interiorità e della libertà, e poi la promessa della comunione.
Nell’ultimo passo, nella conclusione, vorrei esporre la mia tesi interpretativa, che ho intravisto in alcuni commenti e che ho radicalizzato, spero senza andare fuori strada. Chi sono dunque questi eretici, i Nicolaiti? A partire dal problema che l’autore dell’Apocalisse solleva e che per lui costituisce qualcosa di estremamente pericoloso, e cioè il consumo di carni immolate agli idoli. Il punto è: egli vuole che non si comprino e non si consumino più le carni immolate agli idoli. Però abbiamo visto che Getzabele non incitava a dei fatti fisici, tutto ciò che viene detto dev’essere inteso in senso spirituale: la prostituzione di cui si parla è venire a patti con il rigore della fede, con la sua purezza e la sua identità, macchiando queste vesti bianche, di cui l’Apocalisse è continuamente colma. L’autore vuole che non ci siano macchie sulla tua veste di cristiano, e mangiando le carni immolate agli idoli si macchia la propria coscienza, la propria identità, il tuo essere cristiano. L’autore non proibisce il consumo di carne in quanto tale, non v’è ulla a che fare con la tradizione vegetariana. Non si parla della sacralità della vita che va rispettata in ogni sua manifestazione compresa la vita animale, come altre grandissime tradizioni spirituali insegnano.
Cos’è questa carne immolata agli idoli? Nel mondo antico, un mondo peraltro che arriva a qualche generazione fa, circa un paio, la carne era molto cara: pochi si potevano permettere di mangiarla. Le proteine si prendevano dai pesci, e da altre fonti vegetali. La carne si mangiava di rado. La gente comune poteva mangiare carne solo quando nei templi, sia giudaici sia pagani, si compivano i sacrifici, soprattutto nelle grandi festività quando i sacrifici erano tanti. Le famiglie dei sacerdoti, a cui di per sé la carne era destinata, mancando la possibilità di conservarla, la mettevano sul mercato. Queta notizia è presente in diversi commentari, uno in particolare di un padre domenicano, un esegeta irlandese, che dice: “la carne era troppo costosa per la maggior parte delle persone, ed era disponibile solo durante le grandi feste giudaiche o pagane, quando venivano offerti numerosi sacrifici”. E quindi avveniva che i cristiani, anche loro, andavano al tempio a comprare questa carne per poter dare ai propri figli un piatto nutriente che per vari mesi non potevano permettersi. Era qualcosa di molto pratico. E come ragionavano questi cristiani, come la donna a capo della comunità di Tiatira? Donna che l’autore definisce Getzabele con chiaro riferimento polemico, in quanto era la moglie di re Acab che indusse gli israeleti all’idolatria. Era molto probabile infatti che ella non si chiamasse Getzabele, che era un nome ebraico, ma che avesse un nome greco, come Lidia, Irene o Caterina. Cosa diceva questa profetessa? Gli altri sapevano che c’era un Dio solo e che gli idoli non esistono, che tutto ciò che esiste in natura viene dall’unico Dio. Omnia munda mundis, la famosa frase di Fra Cristoforo al padre guardiano. Tutto questo loro lo sapevano. Essi sapevano che gli idoli non esistevano e che quelle carni erano pure, e non volevano privare i figli di questa possibilità di nutrirsi. Noi sappiamo che le cose andavano così perché ne parla approfonditamente lo stesso San Paolo. Se si legge Prima Corinzi (capitoli 8 e 10) e lettera ai Romani (cap 14), si ritrovano esattamente le grandi discussioni sugli idolotiti. E San Paolo dimostra una posizione di compromesso (prima Corinzi 8,8): “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio. Se non mangiamo, veniamo a mancare di qualcosa, se mangiamo, ne abbiamo un vantaggio”. Paolo è consapevole che ciò che fa di un uomo un cristiano è la dimensione spirituale, e non un alimento. Poi però aggiunge: “Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se un cibo scandalizza un mio fratello, non mangerò più carne per non dargli scandalo”. Di per sé quindi si può mangiare, se non si ha a che fare con fratelli intellettualmente, spiritualmente deboli.
A questo punto, quindi, chi sono i Nicolaiti? Chi sono gli eretici contro cui si scaglia in modo così brutale l’autore dell’Apocalisse? Ecco Prejant: “I Cristiani eretici di cui si tratta sono forse quanto gli idolotiti eredi di Paolo”. Perché il nucleo dell’insegnamento paolino è esattamente la libertà spirituale, nella consapevolezza teologica che tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e a Dio appartiene. E infatti sempre nella prima lettera ai Corinzi, dove si discute la questione degli idolotiti si legge questo versetto, uno dei più belli di tutto il Nuovo Testamento: “L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (prima Corinzi 2, 15). Letteralmente Paolo usa il termine ò pneumatikòs, lo “spirit-uale”.
La cosa che si può constatare dall’enigmatica espressione in Apocalisse 2, 24, perché nella lettera a Tiatira si parla delle “profondità di Satana”, tà abathèa tou Satanà. Se si tiene presente sempre la prima Corinzi, noi possiamo comprendere questa affermazione, perché qui si dice “lo spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio”, tà abathèa tou Theou. Dunque i seguaci radicali di Paolo mangiavano tranquillamente le carni immolate agli idoli, e, inoltre, con questa libertà spirituale, avevano la percezione di poter giudicare ogni cosa, anche le profondità di Dio. E, per esempio, di fronte alle pagine della Bibbia ebraica, poter dire “questa pagina è terribile: non la posso accettare!”. Quando si dice “beato chi prenderà i tuoi piccoli in Babilonia devastatrice e sfracellerà il loro tenero cranio contro la pietra”. Ecco, l’uomo spirituale vede queste cose e capisce che questo tipo di lettera non è tale da contenere lo spirito. Ne prende le distanze, mette in campo un’esegesi allegorica, ma non aderirà a questa lettera che di per sé è mostruosa.
L’autore dell’Apocalisse, quindi, fa ironia sulla predicazione di questa profetessa: dice che in questo caso non si ha a che fare con le profondità di Dio, bensì con quelle di Satana. Perché per lui il vero contenuto del messaggio spirituale di questa donna è esattamente la perversione, non certo l’altezza e la libertà dello spirito.
Concludo: prima conclusione. I cristiani adulti, per riprendere l’espressione citata all’inizio, fin dal tempo del nuovo testamento, furono chiamati eretici dai loro correligionari meno progrediti. Secondo, la storia, alla fine, ha sempre dato ragione a chi usa effettivamente la ragione. Perché il non preoccuparsi delle carni immolate agli idoli è esattamente quello che oggi facciamo tutti. Quello che per l’autore dell’Apocalisse era articulus stantis aut cadentis fidei catholici, cioè l’articolo in base al quale sta o cade la fede cattolica, quello che aveva un’importanza così decisiva, ai nostri giorni è semplicemente un relitto archeologico, non esiste più. Ma non solo in questi giorni, bensì anche molto presto in tutta la storia della Chiesa. Quello che invece era l’articolo fondamentale, per l’appunto il più avanzato nel cristianesimo di allora, cioè la libertà spirituale, la capacità di essere uomini spirituali che giudicano ogni cosa, è ancora il vertice da cui tutto promana e a cui tutto deve tornare.
Scritto da Giulia il agosto 23 2011 10:22:16