Nel corso dello scorso incontro è venuto a trovarci ed a portare il suo contributo l’assistente dell’équipe giovani di AC don Raffaele Gobbi. Con lui abbiamo proseguito l’approfondimento teologico del tema della fede focalizzando la nostra attenzione sul Vangelo di Giovanni.
In questo Vangelo non compare il sostantivo fede mentre il verbo credere si ripete per ben 98 volte: il passaggio dal sostantivo al verbo implica, come si evince dall’etimologia di sostantivo, un passaggio dallo stare fermi che caratterizza la sostanza al moto proprio del cammino. E la realtà del credere è infatti dinamica.
Oltre al verbo credere Giovanni adopera spesso sinonimi del verbo credere: vedere, accogliere, ricevere. In Gv 1, 9 ss. si parla di Gesù come della luce e del credere come un accoglierla, riconoscerla, quindi vederla. E il mondo, o meglio la sua famiglia, ossia il popolo ebraico che si sente proprietà di Dio non l’ha accolto e riconosciuto: le invettive antisemite si sono sviluppate dall’interpretazione di questi versetti.
In Gv 9, 39 la relazione tra credere e vedere si esprime in altro modo. Nell’intero capitolo 9 molti uomini restano impressionati dai fatti miracolosi compiuti da Gesù ma Egli li mette in guardia chiedendo loro di andare contro tali fatti, di non considerarli. Ciò perché Egli è la luce vera, quella luce che non si limita a ridonare la vista ai ciechi, guarendo chi è cieco dalla nascita, poiché dona a chi l’accoglie la possibilità di vedere le cose in modo rinnovato: Gesù illumina le cose in modo nuovo dando un senso nuovo ai fatti della vita, e con ciò svela la verità (ove la verità è aletheia, ossia disvelarsi di ciò che è celato). La verità nel Vangelo di Giovanni: luce nuova che è data al corpo, materia, alla carne, alla corporeità; una fede che non si riduce a mera osservanza, pratica, perché è una pratica che sa, deve assumere luce in quanto coinvolge il cuore. Allora nell’esperienza di fede s’inscrive il misticismo d’ogni giorno, quella normale dimensione contemplativa dell’esistenza nella quale manifestiamo capacità di meraviglia e stupore ed avvertiamo totale immersione nella situazione, realtà in cui siamo temporalmente coinvolti.
Per questi suoi spunti il Vangelo di Giovanni permette di dialogare con il Buddismo Zen: i buddisti zen riconoscono tra i versetti un rimando all’illuminazione, o sapienza, quel lasciare cadere la nostra presa sulle cose, i pensieri sino ad aderire all’Essere, per poi tornare a scoprire nella vita quotidiana che ogni cosa è illuminata.
Gesù non si comunica solo come luce: in Gv 8, 24 e 8, 28 , dice di sé, Io Sono. Con tale affermazione Egli non dice solo un esistere ma comunica un’esperienza dell’Essere prima di ogni altra cosa. Tale espressione ricorre anche in Gv 13,19 e vede un richiamo all’Esodo, a quando Dio parlò a Mosè da un roveto ardente. In Gv 8,28 inoltre l’esperienza di fede si esplica in un’esperienza mistica connessa al vedere. In seguito Gesù si comunica, manifesta in sette modi, ad esempio: io sono il pane della vita, io sono la luce del mondo, io sono la via, io sono la vera vite, etc. Essi sono sette segni, cui corrispondono i sacramenti: simboli ossia realtà che partecipano di ciò che esprimono.
Se pertanto in questo Vangelo si da una “fenomenologia” di Gesù è pur vero ch’Egli rifiuta costantemente di essere schematizzato: sia in Gv 9, 39 che in Gv 6,26 si descrive il suo disappunto nei confronti di una fede che si mette alla ricerca di miracoli e guarda a Dio come a un messia potente. Qualora qualcuno lo ricerchi solo in quest’ottica Gesù sceglie di sottrarsi, di nascondersi. La fede cui rinvia Giovanni non è affatto presentata come accomodante, essa si presenta anzi come dialettica, rompe gli schemi di pensiero e chiede di prendere una posizione. Appare come inafferrabile proprio perché è Gesù che rivelandosi e poi nascondendosi, sconcerta e resta sfuggente e non può essere posseduto. Probabilmente Giovanni ribadisce tutto questo perché si trova innanzi una comunità in cui avverte già forte il rischio di una cristallizzazione. La polarità che caratterizza la fede la rende feconda: nell’essere luce-tenebre e pace-inquietudine impedisce di ricadere in un credere cucito su misura; anche quando ci avviciniamo a Dio, Lui resta più in là e questo spazio vuoto tra noi e Lui costituisce il margine da cui scaturisce la nostra libertà; altrimenti se fosse tangibile e perfettamente visibile si imporrebbe, imponendoci la Sua verità; inoltre se Dio è luce e illumina la nostra vita, i nostri occhi non potrebbero mai essere totalmente illuminati perché non riuscirebbero a sopportare tutta la Sua luce.
In conclusione Giovanni (Gv 14) sottolinea l’etica, una vita nuova fondata sull’amore: credere ed amare. La fede in Gesù che emerge da questo Vangelo scombussola le idee, va oltre. La logica del Vangelo non è deduttiva, nello spazio vuoto sta la libertà di credere o non credere. Ed è una fede che non si arresta ad una dimensione intellettuale e mentale perché chiede di essere vissuta, dunque di essere provata. Per Giovanni non vi è fede nel rinnegamento del corpo, e difatti vi può essere fede solo in un vissuto di corpo e carne sani: fede implica il fare la verità, ossia provare la fede attraverso il corpo. E la fisicità della Chiesa stessa si manifesta all’interno della stessa liturgia: vi sono momenti in cui vediamo, altri in cui ascoltiamo, poi sentiamo, mangiamo, oppure ci stringiamo la mano nel segno della pace. Tutti questi gesti si fondano su un Dio che si è incarnato, e perciò si è fatto uomo e carne.
Scritto da nicolo il marzo 01 2008 12 :50:33