Mercoledì 17 aprile 2013, ore 18.30.
Abbiamo aperto l’incontro con la lettura del Vangelo e del commento tratto sempre dal numero di aprile di “Dall’alba al tramonto”: il passo è dal Vangelo secondo Giovanni, 6,35-40. E’ importante desiderare di fare la volontà del Padre, riconoscersi nelle Sue mani, desiderare la salvezza, volere il progetto che Dio ha per ognuno di noi, poiché la nostra vita acquista senso in Lui. La Parola è il mattone su cui costruire il senso della vita.
Abbiamo affrontato il tema delle carceri e della pena con padre Eraclio, Mercedario dell’OASI, nostro ospite per l’incontro. “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”: sforzarsi di vedere Gesù nel volto di ogni detenuto, di non dividere tra buoni e cattivi, di guardare le persone da un’angolatura diversa, di scoprirne la ricchezza è la sfida giornaliera che gli si presenta davanti. Ha voluto distinguere tra due categorie di persone che ci sono in carcere: quelli che accettano la pena, i quali cominciano a fare un percorso e scoprono l’aiuto delle persone vicine e la bellezza di un lavoro, e quelli che, nonostante e a causa della pena, si “imbruttiscono”, perseverano nell’intenzione di compiere reati e di rimanere indifferenti alla rieducazione e al cambiamento.
Ha raccontato della sua esperienza ad Alghero, Palermo e Padova, raccontando della mancanza della coscienza del reato dei detenuti, di coloro che non conoscono la legge: l’incontro dei sequestratori, dei minorenni e poi di casi importanti della cronaca gli ha mostrato come la redenzione è sempre possibile, finché il carcerato collabora e la desidera. Ha posto l’accento su quanto sia differente la giustizia umana da quella divina, perché quest’ultima ha il perdono immediato e immenso di Dio. Come padre Mercedario ha parlato del voto di redenzione: dare la vita per quella di uno schiavo; questo significa impegnarsi in tutto e per tutto con la forza dell’amore, accogliendo il rischio che comporta. Solo Dio ha Misericordia infinita, l’uomo deve cercare di imitarla: bisogna dare fiducia a chi si pente, perché una persona dal carcere può diventare una persona “normale”. Quest’ultima non deve però mai dimenticare quello che ha fatto, per ripartire da lì quando si perde e perché è così che ci si commuove al pensiero che Dio ha perdonato la colpa.
In seguito rispondendo alle nostre domande ha dato la sua opinione su quello che è da cambiare nelle carceri. In primo luogo ha sottolineato che i tossicodipendenti non sono criminali, sono da curare in case adatte a loro; inoltre non bisogna chiudere gli ospedali psichiatrici, strutture utili per alcune persone, che comunque sovrappopolano le strutture carceriere. Sempre su questo tema di sovraffollamento, sostiene che gli stranieri, a meno di situazioni eccezionali di mancati diritti umani nel paese di provenienza, debbano essere estradati. Per quanto riguarda invece la rieducazione del carcerato, ritiene che i fondi stanziati per il reinserimento al lavoro siano pochi: guadagnarsi da vivere ridona dignità alla persona e le colonie lavorative da questo punto di vista sono un bene; se le cooperative sociali sono scarse, la casa di accoglienza diventa punto di riferimento anche per chi ha finito il percorso, non sa come sostenersi e chiede aiuto, si abitua a questo, ha paura e non sa orientarsi. Inoltre diventa difficile accogliere nuovi membri, soprattutto perché le stesse strutture come quella dell’OASI sono poche; per questo non ha senso ospitare gente che ha già intrapreso un cammino di cambiamento. Un esempio di struttura simile può essere la casa “Piccoli Passi”, in cui si effettuano dei periodi brevi di permanenza.
Parlando della possibilità di una seconda redenzione dopo un ritorno al reato, cita i motti dei corpi di vigilanza: “Vigilando redimere” e “Munus nostrum est despondere spem”. Suscitare la speranza di una vita nuova è un compito e una possibilità che non deve essere negata; questa speranza però avviene nell’attesa del suo arrivo, mentre si sconta la pena. L’errore è un segno di debolezza e forse si può essere più indulgenti. Questo non toglie che ci siano dei limiti e, soprattutto, che ci siano falsi pentimenti, cui rispondere severamente. Confrontandolo al cammino di conversione, per seguire Cristo non è sufficiente credere, ma occorre prendere la propria croce e impegnarsi. Tante volte il cambiamento parte accompagnato da un cammino spirituale: la forza interiore per trasformarsi viene da qualcosa di più alto, non può essere pescata dal proprio cuore. L’appoggio delle famiglie in questo senso deve anche aiutare il carcerato, ma spesso il dialogo dipende dalle svariate situazioni che s’incontrano e questi collegamenti esterni ancora non sono ben organizzati. La stessa adesione ad una casa di accoglienza spesso è condizionata all’indirizzamento esterno, alla presenza di un ente che la suggerisce, a una famiglia che segue i passi del detenuto.
Infine ha chiesto di pregare per lui, l’Ordine, per la loro opera e per i detenuti.
Abbiamo aperto l’incontro con la lettura del Vangelo e del commento tratto sempre dal numero di aprile di “Dall’alba al tramonto”: il passo è dal Vangelo secondo Giovanni, 6,35-40. E’ importante desiderare di fare la volontà del Padre, riconoscersi nelle Sue mani, desiderare la salvezza, volere il progetto che Dio ha per ognuno di noi, poiché la nostra vita acquista senso in Lui. La Parola è il mattone su cui costruire il senso della vita.
Abbiamo affrontato il tema delle carceri e della pena con padre Eraclio, Mercedario dell’OASI, nostro ospite per l’incontro. “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”: sforzarsi di vedere Gesù nel volto di ogni detenuto, di non dividere tra buoni e cattivi, di guardare le persone da un’angolatura diversa, di scoprirne la ricchezza è la sfida giornaliera che gli si presenta davanti. Ha voluto distinguere tra due categorie di persone che ci sono in carcere: quelli che accettano la pena, i quali cominciano a fare un percorso e scoprono l’aiuto delle persone vicine e la bellezza di un lavoro, e quelli che, nonostante e a causa della pena, si “imbruttiscono”, perseverano nell’intenzione di compiere reati e di rimanere indifferenti alla rieducazione e al cambiamento.
Ha raccontato della sua esperienza ad Alghero, Palermo e Padova, raccontando della mancanza della coscienza del reato dei detenuti, di coloro che non conoscono la legge: l’incontro dei sequestratori, dei minorenni e poi di casi importanti della cronaca gli ha mostrato come la redenzione è sempre possibile, finché il carcerato collabora e la desidera. Ha posto l’accento su quanto sia differente la giustizia umana da quella divina, perché quest’ultima ha il perdono immediato e immenso di Dio. Come padre Mercedario ha parlato del voto di redenzione: dare la vita per quella di uno schiavo; questo significa impegnarsi in tutto e per tutto con la forza dell’amore, accogliendo il rischio che comporta. Solo Dio ha Misericordia infinita, l’uomo deve cercare di imitarla: bisogna dare fiducia a chi si pente, perché una persona dal carcere può diventare una persona “normale”. Quest’ultima non deve però mai dimenticare quello che ha fatto, per ripartire da lì quando si perde e perché è così che ci si commuove al pensiero che Dio ha perdonato la colpa.
In seguito rispondendo alle nostre domande ha dato la sua opinione su quello che è da cambiare nelle carceri. In primo luogo ha sottolineato che i tossicodipendenti non sono criminali, sono da curare in case adatte a loro; inoltre non bisogna chiudere gli ospedali psichiatrici, strutture utili per alcune persone, che comunque sovrappopolano le strutture carceriere. Sempre su questo tema di sovraffollamento, sostiene che gli stranieri, a meno di situazioni eccezionali di mancati diritti umani nel paese di provenienza, debbano essere estradati. Per quanto riguarda invece la rieducazione del carcerato, ritiene che i fondi stanziati per il reinserimento al lavoro siano pochi: guadagnarsi da vivere ridona dignità alla persona e le colonie lavorative da questo punto di vista sono un bene; se le cooperative sociali sono scarse, la casa di accoglienza diventa punto di riferimento anche per chi ha finito il percorso, non sa come sostenersi e chiede aiuto, si abitua a questo, ha paura e non sa orientarsi. Inoltre diventa difficile accogliere nuovi membri, soprattutto perché le stesse strutture come quella dell’OASI sono poche; per questo non ha senso ospitare gente che ha già intrapreso un cammino di cambiamento. Un esempio di struttura simile può essere la casa “Piccoli Passi”, in cui si effettuano dei periodi brevi di permanenza.
Parlando della possibilità di una seconda redenzione dopo un ritorno al reato, cita i motti dei corpi di vigilanza: “Vigilando redimere” e “Munus nostrum est despondere spem”. Suscitare la speranza di una vita nuova è un compito e una possibilità che non deve essere negata; questa speranza però avviene nell’attesa del suo arrivo, mentre si sconta la pena. L’errore è un segno di debolezza e forse si può essere più indulgenti. Questo non toglie che ci siano dei limiti e, soprattutto, che ci siano falsi pentimenti, cui rispondere severamente. Confrontandolo al cammino di conversione, per seguire Cristo non è sufficiente credere, ma occorre prendere la propria croce e impegnarsi. Tante volte il cambiamento parte accompagnato da un cammino spirituale: la forza interiore per trasformarsi viene da qualcosa di più alto, non può essere pescata dal proprio cuore. L’appoggio delle famiglie in questo senso deve anche aiutare il carcerato, ma spesso il dialogo dipende dalle svariate situazioni che s’incontrano e questi collegamenti esterni ancora non sono ben organizzati. La stessa adesione ad una casa di accoglienza spesso è condizionata all’indirizzamento esterno, alla presenza di un ente che la suggerisce, a una famiglia che segue i passi del detenuto.
Infine ha chiesto di pregare per lui, l’Ordine, per la loro opera e per i detenuti.