Giovedì, 06 giugno 2013
Con il Vangelo del giorno (Mc 12, 28-34) abbiamo aperto l’incontro. Don Marco ci ha inizialmente fatto osservare quanto sia bello che nessuno osi interrogare ancora Gesù, perché ripropone il silenzio che la sapienza genera attorno a sé. E poi, scandagliando la lettura e calandola nel modo di pensare la vita oggi, ha richiamato la non evidenza e la non necessità di Dio, la libertà trasformata in individualismo come immagini da confrontare all’amore per Dio, per se stessi e per gli altri. Come l’uomo di oggi si pensa? Qual è l’elemento spirituale che vive? Il volontariato come azione verso il prossimo può essere un elemento di resistenza per sopravvivere, una dimensione in cui sviluppare la spiritualità.
Continuando l’ascolto sulle lezioni di Salmann tenute a Camaldoli, siamo partiti dal significato della trascendenza e dell’immanenza, rispettivamente come i caratteri di una realtà concepita come ulteriore, "al di là” di questo mondo e di quella che risiede nel soggetto e che non può esserne separata; entrambe, però, per essere concepite, rimandano l’una all’altra. Si è riflettuto sul carattere liberatorio dell’essere “Pars pro toto”, avere libertà di pensiero, di lavorare secondo ciò che si sente e, paragonando quest’immagine alla minestra che viene salata, il nostro modo di agire caratterizza uno stile. Questa è la stessa libertà che si percepisce nello spazio grande che intercorre tra trascendenza e immanenza, in cui l’incontro con il divino avviene in modi diversi. E addirittura, richiamando Bonhoeffer, il nostro è un Dio che muore per noi, togliendosi: la parte non è totalizzante, anzi entra in contatto con il suo diretto opposto. A questo punto si potrebbe cogliere un riferimento all’ateismo, che anche può in questo spazio entrare in contatto con Dio. Bisogna trovare una via di mezzo in questo spazio. Immanenza vuol dire anche finitezza, consapevolezza di una vita finita: da una parte ci sono tante possibilità offerte e, scegliendoli, le si può concretizzare, dall’altro esse sono sempre finite nell’arco di una vita, che nasce e che muore. È si liberatoria, ma vuole anche essere chiusa: all’uomo bisogna dare risposte e concretezza, una vita compresa, non si può vivere di sole possibilità e prospettive. E dall’altra parte l’immagine del sorriso del Buddha e dell’indifferenza ai problemi descrive la capacità di superare i limiti, senza però che la religione diventi una filosofia, un’ideologia; l’idea che il mondo non si spieghi da se, ma che sia espressione di qualcosa di più grande racchiude proprio la trascendenza, che rende più profonda la vita.
È importante che i concetti siano chiari nel nostro patrimonio culturale, anche se non fanno parte dei nostri studi. Riflettere su cosa si sta studiando, sentire una vocazione entra in contrasto con l’esigenza di essere completamente se stessi: come si può pensare di vivere pienamente una cosa, se non ci si concentra su quella? Cosa significa essere completamente se stessi e non essere quello che si è scelto di essere? Richiamando una citazione, “sarebbe una follia fare solo ciò che si è”. Ogni cosa nel diventare troppo se stessa può ritorcersi contro di sé: c’è bisogno di essere critici, di vedere le cose da un’altra angolazione, quello che si fa non può diventare il solo scopo, perché i movimenti diventano fini a se stessi. E in quest’ottica di molteplicità, cosa vuol dire dividere la realtà in settori? Se si è ina persona sola, qual è il motivo per non riunire tutto insieme? Non basta forse uno sguardo equilibrato? Come si può dividere la cultura dalla scienza? Dentro di noi c’è un’esigenza di unità, mentre è fuori che necessitiamo di ordine e differenza, che devono essere salvaguardati. Si potrebbe paragonare questo bisogno al federalismo con il principio di sussidiarietà, oppure cogliere questa differenziazione solo a livello metodologico: è importante differenziare le cose per non incorrere nel rischio di non riuscire a riconoscerle, conoscerle, orientarsi e dare indicazioni. Ci si può ricondurre infine all’unità, perché l’io è una sintesi e le idee si ricostruiscono in esso insieme. In questo modo si ricostruisce un’identità, riconoscendo in ogni cosa una somiglianza e una differenza. Imparare a conoscere le cose in tutte le loro parti non dà solo ordine, ma mette in relazione con ognuna: è bene che resti distinta per questo. Nonostante questo però un’idea come quella di Dio non può essere sfaccettata, richiede un’unità. Come uniformare quest’ultima con i molti modi di percepire la coscienza in relazione ad essa? Il senso della giustizia come coscienza morale comune a tutti come può unirsi nella visione di Dio, se questa è frammentata? Come cristiani si può rileggere il rapporto con Dio parlando di Gesù: l’esperienza di Cristo, il significato del Vangelo sono chiarificatori. Deve essere anzitutto chiaro che la visione di Dio non può essere confusa con quella del mondo: richiamando la testimonianza di don Albino, oggi abbiamo bisogno di fatti di vangelo, è l’esperienza naturale che porta a chiedersi chi sia Dio, ma è Cristo ad aprire questa porta e non un’immagine di Dio da noi creata a partire dalle nostre idee. Naturalmente occorre un primo annuncio alla fede, di un riferimento da cui partire, ma che venga dall’esperienza e non da costruzioni, perché non possiamo dire nulla su Dio. “Più che di maestri questo mondo ha bisogno di testimoni”. Dal punto di vista morale, i principi per il comportamento allora non sono ideali e massimali, ma prendono fondamento e ispirazione da una scelta, e ciò deve essere chiaro. Non si può pensare di spiegare come etica un principio come l’amore: l’esperienza dell’umano non è una griglia fissa e andando in profondità si prende consapevolezza della vita, che è scelta libera.
In questo si colloca una visione più concentrata sulla visione della Chiesa, di come questa parta dalla figura di Cristo per arrivare a una visione di Dio. Parlare di Dio come un concetto molto metafisico e poi dargli degli attributi in modo umano, dare dei precetti sembra essere più importante a volte del messaggio dell’inclusione e dell’amore. Vivere nella Chiesa viene spesso visto come un meccanicismo, in cui non si tiene conto della storia che cambia: la storicizzazione di Dio è fissa, crea un’immagine bigotta dell’approccio alla religione. Per questo si vuole partire dal basso, senza interpretare il Vangelo, perché non abbiamo la chiave di lettura. Bisogna distinguere tra morale religiosa e modo di comportarsi: la religione diventa un punto di vista in più, non un metodo esclusivo. Inoltre, però, non si vuole pretendere di avere ragione, ma non si vuole neanche mescolare i concetti: non è vero che l’educazione cristiana non è in linea con l’umanità. Ricevere una formazione come un’imposizione e senza fare il tentativo di comprendere quali siano le ragioni di avere una fede è il tono di chi è chiuso e vuole imporsi: l’approccio a questa opposizione è quello di spiegare la scelta di fede in modo diverso, di come la viviamo e sentiamo in linea con l’umanità. È dovere però anche degli altri aprire lo sguardo ad una visione nuova, per non avere un parere sul passato; deve esserci una volontà di crescere da entrambe le parti! Non bisogna lasciarsi abbindolare dagli stereotipi e dalla chiusura, come anche non si può parlare di Dio ad un disinteressato con discorsi metafisici. Semplicemente la comunicazione avviene parlando della realtà che viviamo. Il fatto che il cristianesimo venga visto da Salmann come tentativo di sintonia, che può essere compresa da tutti, il fatto che l’immanenza e la trascendenza di Dio lo rendano descrivibile tramite l’esperienza personale è pacificante: è dal sentire di ciascuno che dipende ciò che comunichiamo. Il dialogo del cristianesimo si sviluppa nella gamma di significati che si possono cogliere in ogni fenomeno e si concretizza nella relatività e nella limitatezza. L’idea dell’uomo di poter essere infinito, la ricchezza, le relazioni possessive, il riferimento solo a se stessi, il desiderio di ogni capacità sminuiscono l’immagine che ciascuno ha di sé e il cristianesimo da questo punto di vista offre alla cultura una risposta sapiente: la realtà è sì infinità, ma la necessità di ciascuno non può essere quella di viverla nella sua interezza. Come la potenza di Dio che è amore e non forza, l’essenza di Dio è non avere un momento per sé ma compiacersi della libertà dell’uomo. La debolezza non impositiva dell’amore di Dio offre mille strade all’uomo e le persone che fanno esperienza di Dio comunicano nella limitatezza dell’incontro e del racconto.
Con il Vangelo del giorno (Mc 12, 28-34) abbiamo aperto l’incontro. Don Marco ci ha inizialmente fatto osservare quanto sia bello che nessuno osi interrogare ancora Gesù, perché ripropone il silenzio che la sapienza genera attorno a sé. E poi, scandagliando la lettura e calandola nel modo di pensare la vita oggi, ha richiamato la non evidenza e la non necessità di Dio, la libertà trasformata in individualismo come immagini da confrontare all’amore per Dio, per se stessi e per gli altri. Come l’uomo di oggi si pensa? Qual è l’elemento spirituale che vive? Il volontariato come azione verso il prossimo può essere un elemento di resistenza per sopravvivere, una dimensione in cui sviluppare la spiritualità.
Continuando l’ascolto sulle lezioni di Salmann tenute a Camaldoli, siamo partiti dal significato della trascendenza e dell’immanenza, rispettivamente come i caratteri di una realtà concepita come ulteriore, "al di là” di questo mondo e di quella che risiede nel soggetto e che non può esserne separata; entrambe, però, per essere concepite, rimandano l’una all’altra. Si è riflettuto sul carattere liberatorio dell’essere “Pars pro toto”, avere libertà di pensiero, di lavorare secondo ciò che si sente e, paragonando quest’immagine alla minestra che viene salata, il nostro modo di agire caratterizza uno stile. Questa è la stessa libertà che si percepisce nello spazio grande che intercorre tra trascendenza e immanenza, in cui l’incontro con il divino avviene in modi diversi. E addirittura, richiamando Bonhoeffer, il nostro è un Dio che muore per noi, togliendosi: la parte non è totalizzante, anzi entra in contatto con il suo diretto opposto. A questo punto si potrebbe cogliere un riferimento all’ateismo, che anche può in questo spazio entrare in contatto con Dio. Bisogna trovare una via di mezzo in questo spazio. Immanenza vuol dire anche finitezza, consapevolezza di una vita finita: da una parte ci sono tante possibilità offerte e, scegliendoli, le si può concretizzare, dall’altro esse sono sempre finite nell’arco di una vita, che nasce e che muore. È si liberatoria, ma vuole anche essere chiusa: all’uomo bisogna dare risposte e concretezza, una vita compresa, non si può vivere di sole possibilità e prospettive. E dall’altra parte l’immagine del sorriso del Buddha e dell’indifferenza ai problemi descrive la capacità di superare i limiti, senza però che la religione diventi una filosofia, un’ideologia; l’idea che il mondo non si spieghi da se, ma che sia espressione di qualcosa di più grande racchiude proprio la trascendenza, che rende più profonda la vita.
È importante che i concetti siano chiari nel nostro patrimonio culturale, anche se non fanno parte dei nostri studi. Riflettere su cosa si sta studiando, sentire una vocazione entra in contrasto con l’esigenza di essere completamente se stessi: come si può pensare di vivere pienamente una cosa, se non ci si concentra su quella? Cosa significa essere completamente se stessi e non essere quello che si è scelto di essere? Richiamando una citazione, “sarebbe una follia fare solo ciò che si è”. Ogni cosa nel diventare troppo se stessa può ritorcersi contro di sé: c’è bisogno di essere critici, di vedere le cose da un’altra angolazione, quello che si fa non può diventare il solo scopo, perché i movimenti diventano fini a se stessi. E in quest’ottica di molteplicità, cosa vuol dire dividere la realtà in settori? Se si è ina persona sola, qual è il motivo per non riunire tutto insieme? Non basta forse uno sguardo equilibrato? Come si può dividere la cultura dalla scienza? Dentro di noi c’è un’esigenza di unità, mentre è fuori che necessitiamo di ordine e differenza, che devono essere salvaguardati. Si potrebbe paragonare questo bisogno al federalismo con il principio di sussidiarietà, oppure cogliere questa differenziazione solo a livello metodologico: è importante differenziare le cose per non incorrere nel rischio di non riuscire a riconoscerle, conoscerle, orientarsi e dare indicazioni. Ci si può ricondurre infine all’unità, perché l’io è una sintesi e le idee si ricostruiscono in esso insieme. In questo modo si ricostruisce un’identità, riconoscendo in ogni cosa una somiglianza e una differenza. Imparare a conoscere le cose in tutte le loro parti non dà solo ordine, ma mette in relazione con ognuna: è bene che resti distinta per questo. Nonostante questo però un’idea come quella di Dio non può essere sfaccettata, richiede un’unità. Come uniformare quest’ultima con i molti modi di percepire la coscienza in relazione ad essa? Il senso della giustizia come coscienza morale comune a tutti come può unirsi nella visione di Dio, se questa è frammentata? Come cristiani si può rileggere il rapporto con Dio parlando di Gesù: l’esperienza di Cristo, il significato del Vangelo sono chiarificatori. Deve essere anzitutto chiaro che la visione di Dio non può essere confusa con quella del mondo: richiamando la testimonianza di don Albino, oggi abbiamo bisogno di fatti di vangelo, è l’esperienza naturale che porta a chiedersi chi sia Dio, ma è Cristo ad aprire questa porta e non un’immagine di Dio da noi creata a partire dalle nostre idee. Naturalmente occorre un primo annuncio alla fede, di un riferimento da cui partire, ma che venga dall’esperienza e non da costruzioni, perché non possiamo dire nulla su Dio. “Più che di maestri questo mondo ha bisogno di testimoni”. Dal punto di vista morale, i principi per il comportamento allora non sono ideali e massimali, ma prendono fondamento e ispirazione da una scelta, e ciò deve essere chiaro. Non si può pensare di spiegare come etica un principio come l’amore: l’esperienza dell’umano non è una griglia fissa e andando in profondità si prende consapevolezza della vita, che è scelta libera.
In questo si colloca una visione più concentrata sulla visione della Chiesa, di come questa parta dalla figura di Cristo per arrivare a una visione di Dio. Parlare di Dio come un concetto molto metafisico e poi dargli degli attributi in modo umano, dare dei precetti sembra essere più importante a volte del messaggio dell’inclusione e dell’amore. Vivere nella Chiesa viene spesso visto come un meccanicismo, in cui non si tiene conto della storia che cambia: la storicizzazione di Dio è fissa, crea un’immagine bigotta dell’approccio alla religione. Per questo si vuole partire dal basso, senza interpretare il Vangelo, perché non abbiamo la chiave di lettura. Bisogna distinguere tra morale religiosa e modo di comportarsi: la religione diventa un punto di vista in più, non un metodo esclusivo. Inoltre, però, non si vuole pretendere di avere ragione, ma non si vuole neanche mescolare i concetti: non è vero che l’educazione cristiana non è in linea con l’umanità. Ricevere una formazione come un’imposizione e senza fare il tentativo di comprendere quali siano le ragioni di avere una fede è il tono di chi è chiuso e vuole imporsi: l’approccio a questa opposizione è quello di spiegare la scelta di fede in modo diverso, di come la viviamo e sentiamo in linea con l’umanità. È dovere però anche degli altri aprire lo sguardo ad una visione nuova, per non avere un parere sul passato; deve esserci una volontà di crescere da entrambe le parti! Non bisogna lasciarsi abbindolare dagli stereotipi e dalla chiusura, come anche non si può parlare di Dio ad un disinteressato con discorsi metafisici. Semplicemente la comunicazione avviene parlando della realtà che viviamo. Il fatto che il cristianesimo venga visto da Salmann come tentativo di sintonia, che può essere compresa da tutti, il fatto che l’immanenza e la trascendenza di Dio lo rendano descrivibile tramite l’esperienza personale è pacificante: è dal sentire di ciascuno che dipende ciò che comunichiamo. Il dialogo del cristianesimo si sviluppa nella gamma di significati che si possono cogliere in ogni fenomeno e si concretizza nella relatività e nella limitatezza. L’idea dell’uomo di poter essere infinito, la ricchezza, le relazioni possessive, il riferimento solo a se stessi, il desiderio di ogni capacità sminuiscono l’immagine che ciascuno ha di sé e il cristianesimo da questo punto di vista offre alla cultura una risposta sapiente: la realtà è sì infinità, ma la necessità di ciascuno non può essere quella di viverla nella sua interezza. Come la potenza di Dio che è amore e non forza, l’essenza di Dio è non avere un momento per sé ma compiacersi della libertà dell’uomo. La debolezza non impositiva dell’amore di Dio offre mille strade all’uomo e le persone che fanno esperienza di Dio comunicano nella limitatezza dell’incontro e del racconto.